Studi danteschi:  Dal Veltro al Cinquecento Dieci e Cinque: Dante e l’Italia

 

di Giovanni Lovito

[ ———————————————–].
Poscia per indi ond’era pria venuta
l’aguglia vidi scender giù nell’arca
del carro, e lasciar lei di sé pennuta.
[ …………………………………………]
Poi parve a me che la terra s’aprisse
tra ’mbo le ruote, e vidi uscirne un drago,
che per lo carro su la coda fisse;
e come vespa che ritragge l’ago,
a sé traendo la coda maligna,
trasse del fondo, e gissen’ vago vago. [Purg. XXXII, vv. 124-135].

La prevalente aspirazione dantesca, come s’è visto negli scritti precedenti, fu quella di veder risorgere il buon tempo di Roma insieme con la speranza nel venturo «salvatore» dell’Italia e del mondo, il novello «veltro» capace di risanare le piaghe «c’hanno Italia morta» (Purg. VII, 95). L’atteso salvatore sarebbe stato, oltre che «inviato del cielo», un successore di Enea e discendente di quel Costantino che tanto male aveva causato alla Cristianità (Inf. XIX, vv. 115-117; Par. XX, 55-60; De mon., III, X, 4-6); sarebbe stato, ancora, un «principe novello» che, annullando gli effetti del ‘lascito’ imperiale [(…) l’aguglia vidi scender giù nell’arca / del carro, e lasciar lei di sé pennuta».], avrebbe ripristinato «la Monarchia universale quale era ancor prima della donazione». Alla missione di carattere universale, inoltre, si associava l’altra di carattere «nazionale» e «italiano»: ancor prima che signori del mondo, Arrigo e i suoi successori sarebbero stati sovrani della nazione italiana. L’Italia, come la Roma augustea, caput mundi: fu l’anelito prioritario del Fiorentino, nella prospettiva ideologica della restaurazione di un’autorità imperiale da sempre vacante dopo la morte dello Stupor mundi (1250).
Queste le premesse storiche fondamentali non solo delle prime terzine del Poema inneggianti al futuro avvento del «Veltro», ma anche di alcuni canti successivi, tra cui il XXXIII del Purgatorio, là dove l’allegoria dei primi versi sembra imporsi decisamente nell’esaltazione del «cinquecento diece e cinque»:

ch’io veggio certamente, e però il narro,
a darne tempo già stelle propinque,
secure d’ogn’intoppo e d’ogni sbarro,
nel quale un cinquecento diece e cinque,
messo di Dio, anciderà la fuia

con quel gigante che con lei delinque (Purg. XXXIII, 40-45).

Nel corso dei secoli varie ipotesi sono state avanzate sulla perifrasi aritmetica e, tra le più logiche, v’è quella per cui dietro la stessa possa celarsi [anagrammando il numero romano D X V] l’Imperatore Arrigo VII. Alessandro Vellutello, nel secolo XVI, a tal proposito scriveva:

Perch’io veggio, dice, certamente e però ’l narro, già propinque stelle, già prossime influentie, sicure d’ogni intoppo e d’ogni sbarro, ciò è, sicure d’ogni impedimento, a darne tempo nel quale un cinquecento diece e cinque, ciò è, un duca, perché cinquecento si scrive con questa lettera D. Cinque con un V. e diece con un X. che fa DUX.Messo celeste, ciò è, mandato di Dio anciderà la fuia, disperderà la puttana significata per lo Papa, et esso per l’avaritia, e quel gigante, e quel signor temporale che delinque, il qual pecca con lei, intendendo di Filippo Bello. Et in sententia dice che questo duca spegnerà l’avaritia et ogni fautor di quella. Fingendo di pronosticar per costui d’Arrigo settimo Imperadore, per la passata del qual in Italia, come dicemmo ne la vita del poeta, essa Italia era tutta levata in speranza di grandissime novità, et esso poeta d’esser col suo mezzo rimesso in Firenze. E questo, perché in fatto costui, secondo che scrive il Villani al primo del nono lib.(ro) de la sua opera, fu buono, prudente, giusto, gratioso, honesto, catolico, valoroso e securissimo in arme. E dopo la sua elettione e confirmatione, immediate pacificò tutti i Signori e Baroni de la Magna, e sollecitò la sua venuta a Roma per la corona, e per pacificar et indrizzar Italia tanto del temporale quanto de lo spirituale, che in pessimo stato era, per miglior via, con ferma opinione di passar poi il mare al racquisto di terra santa.

Baldassarre Lombardi, seguendo le orme dello storico rinascimentale, sostenne pienamente la tesi succitata: il Dux potrebbe identificarsi, oltre che con il Veltro, con il ‘capitano’ veronese Cangrande della Scala e, quindi, con lo stesso Imperatore:

Imita qui Dante lo stile profetico di S. Giovanni nell’Apocalisse, ove indica il nome dell’Anticristo dicendo numerus eius sexcenti sexaginta sex […]; e per cinquecento diece e cinque intende le tre lettere Romane DXV, e la voce ch’esse formano collocandosi la terza fra le due prime a questo modo DVX, che vuol dire capitano. […]. In questa profezia il senso allegorico è talmente immedesimato col senso letterale, che questo non ha valore senza quello. Qui sostanzialmente si ripete e si conferma la profezia del Veltro. Dalla morte di Federico II ad Arrigo VII di Lussemburgo, Dante considerò vacante la sede dell’Impero perché gli eletti non scesero in Italia a cingere la corona imperiale. Ma l’Impero, secondo Dante, non doveva rimanere a lungo senza legittimi eredi: già volgevano prossime le Stelle benigne, che, libere da ogni impedimento, dovevano portare agli uomini un tempo in cui Dio manderà su la terra un Duce che ucciderà la fuia, la ladra, usurpatrice dei diritti imperiali, e il Gigante; cioè farà cessare i fatali amoreggiamenti tra la Curia pontificia e la Casa reale di Francia, «la mala pianta Che la terra cristiana tutta aduggia».

Va considerata, a questo punto, la profonda correlazione vigente fra il Veltro del canto introduttivo, il Messo celeste e il «cinquecento diece e cinque» del XXXIII canto del Purgatorio, là dove Beatrice, rivolgendosi a Dante, preannuncia l’avvento del «messo di Dio» determinato a uccidere la «fuia» e il «gigante che con lei delinque». V’è un chiaro riferimento al futuro imperatore disposto a combattere la Chiesa corrotta e i sovrani di Francia suoi alleati. Che il poeta, infatti, con il cinquecento diece e cinque abbia voluto manifestare la sua speranza in un duce venturo (così come aveva già fatto con il Veltro e, seppure in maniera più latente, con il Messo celeste della città di Dite) è cosa ormai evidente né conviene soffermarsi ulteriormente sulla questione che ha visto la maggior parte dei critici convergere su un’unica fondamentale interpretazione: dall’anagramma dei  numeri latini cinquecento, dieci e cinque (D X V) scaturisce il termine DVX ovvero ‘Duce’, rappresentante supremo dell’aquila e salvatore dell’Italia. C’è, in tutto questo, un preciso riferimento ad Arrigo VII, l’Imperatore che Dante, con un ulteriore ed evidente richiamo all’Eneide virgiliana, aveva già invocato mediante una significativa epistola di cui riportiamo alcuni passi fondamentali:

«[…] Pudeat itaque in angustissima mundi area irretiri tam diu quem mundus omnis expectat; et ab Augusti circumspectione non defluat quod Tuscana tyrannis in dilationis fiducia confortatur, et cotidie malignantium cohortando superbiam vires novas accumulat, temeritatem temeritati adiciens. Intonet iterum voxilla Curionis in Cesarem: […]. Intonet illa vox increpitantis Anubis iterum in Eneam:

Si te nulla movet tantarum gloria
nec super ipse tua moliris laude laborem,
Ascanium surgentem et spes heredis Iuli
respice, cui regnum Ytalie Romanaque tellus
debentur»
.

[Si vergogni, dunque, di stare sì a lungo impigliato in un brevissimo angolo della terra colui che tutto il mondo aspetta: e dalla considerazione d’Augusto non cada che la toscana tirannide nella fiducia dell’indugio si conforta e ogni dì la superbia de’ maligni confortando, nuove forze raguna, temeritade a temeritade aggiungendo. […]. Tuoni novellamente quella voce che dalle nubi fea rampogna ad Enea: […] Ove la tua / Gloria più non ti muova, e non ti rechi / Le tue fatiche a lode, al pargoletto / Ascanio almen pon mente, al figliuol tuo, / Cui si debbe il venturo italo regno / E l’impero del mondo (…)] (Ep. VII, 4).

A partire dall’Ottimo Commento, la maggior parte dei critici ha visto adombrato dietro la misteriosa locuzione un futuro DVX (messaggero divino) «che tutto il mondo ridurrà a Dio». Niccolò Bettoni identificò il Messo con il Veltro del canto introduttivo e con Cangrande della Scala, mentre, sempre nel secolo XIX, non mancarono quegli studiosi propensi a scorgere dietro la cifra crittografica il futuro DVX salvatore della Nazione, identificandolo ora con Arrigo VII, ora con Uguccione della Faggiuola, ora con il dominus veronese. A suffragare la tesi del messo/Imperatore furono il Venturi, l’Ambrosoli, il Biagioli e il Berardinelli che confermò:

«Questo capitano (DVX), messo di Dio, per tutti gli argomenti che sarebbe lungo ripetere, è quello stesso che il Poeta invoca nel XX del Purgatorio, perché disceda la lupa, quello stesso per conseguente che Virgilio predice nel I dell’Inferno: in una parola il Veltro. Il Veltro adunque restaurerà l’Imperio; e farallo abbattendo la potenza guelfa, di cui principale sostegno è il re di Francia».

Alcuni studiosi dietro l’enigmatico verso videro adombrata «l’Araba fenice d’un 515»; Giuseppe Vandelli e il Manni, anche alla luce del passo dell’epistola poc’anzi riportato, confermarono la tesi del DVX, ravvisabile nella persona dell’Imperatore Arrigo VII di Lussemburgo. Agli albori del secolo XIX, Filippo Marino dietro la misteriosa locuzione scorgeva un «imperatore cristiano» deciso a vendicare gli oltraggi compiuti nei confronti della Chiesa dalla Curia romana e dalla monarchia francese; identificava, quindi, l’aquila «che lasciò le penne al carro» con un degno erede di Costantino, Carlo Magno, già menzionato, oltre che nel cielo di Marte [Par. XVIII, 43], nel canto sesto del Paradiso [Par. VI, vv. 94-111].
Con l’Italia divisa e l’Urbe «vedova e sola», il mondo ecclesiastico s’era sostituito all’Impero nel dominio del mondo e della cristianità, supportato e sorretto da una monarchia illegittima, quella francese, la cui avversione nei confronti dell’autorità imperiale fu alla base dell’inganno perpetrato dal «Guasco» ai danni dell’«alto Arrigo» [Par. XVII, v. 82]. Non solo. Il critico conferì al «cinquecento diece e cinque» un significato cronologico, prendendo come punti di riferimento il termine a quo (anno di incoronazione di Carlo Magno e periodo in cui l’Impero d’Occidente si rinnovava) e il termine ad quem ovvero l’anno 1315, 514 anni dopo la data dell’elezione del sovrano francese. Chi fosse l’erede di Carlo (il messo di Dio invocato dall’Alighieri) viene chiarito nel passo conclusivo dello scritto:

«Così, tolto di mezzo Alberto (d’Austria), non si può riferire il presagio ad altro imperatore prima d’Arrigo. L’aspettato, adunque, non può essere che costui. […]. A me basta di sapere che il gigante, cui dovrà uccidere il messo, è Filippo il Bello – come intendono la maggior parte dei commentatori – morto nel 1314».

Il Pietrobono sottolineò il nesso esistente fra il Veltro, il «nunzio» del nono canto infernale e il cinquecento diece e cinque in questi termini:

«Premesso perciò che nel cinquecento diece e cinque è da vedere sicuramente un imperatore, e che questo imperatore fa una sola persona con il Veltro, profetato da Virgilio, aggiungiamo che non c’è ragione di scorgere in quei numeri un DVX. […]. Coloro infatti che distinguono il Messo di Dio dal Veltro lo fanno, prima perché non vedono come il Messo del cielo sceso ad aprire la porta di Dite sia figura del Veltro, poi perché non badano come la missione dell’uno coincide esattamente con quella dell’altro».

Un punto, allora, va tenuto ben saldo: il sistema simmetrico dei canti induce a sottolineare e ribadire, ancora una volta, il profondo legame esistente fra il Veltro, il Missus a Deo e il cinquecento diece e cinque o DVX dell’ultimo canto del Purgatorio. Il tutto risulta indicativo dell’idea costituente non solo il nerbo del pensiero dantesco, ma anche il nucleo concettuale che conferisce l’unità ideologica al Poema: la restaurazione imperiale è possibile solo mediante la rievocazione di Roma antica e del suo grande Impero, entrambi ravvisabili e individuabili nella storia d’Italia e del suo popolo, di cui il vero progenitore fu Enea. Da qui l’esaltazione del «cavalcatore dell’umana volontà», l’imperatore invocato ed esaltato nell’epistola VII in quanto «Ministro del Cielo, figlio della Chiesa e promotore della romana gloria».
Risulta davvero utile, a tal proposito, riportare alcune fondamentali opinioni dello storico Paolo Silvani, il quale, dopo aver definito il «DXV» un tutt’uno col Veltro del canto introduttivo, sulle orme del Pascoli e del Valli giunse ad una conclusione fondamentale: il confluire, nella persona dell’imperatore, delle missioni del Dux e del Judex suffraga la teoria dantesca per cui pax cum libertate siano davvero attuabili (in Italia e nel mondo) mediante il governo del monarca universale. Una teoria, questa, che scaturisce da un’analisi ancor più approfondita della perifrasi numerica, dietro la quale lo studioso scorgeva non solo il DVX già noto alla critica, ma anche la voce Judex, a sua volta derivante dall’anagramma di «I (un) D (cinquecento) X (diece) E (e) V (cinque)». È in tale prospettiva che si colloca l’ideologia innovativa del critico ed è degno di attenzione il complesso di argomenti pratici con cui lo stesso dimostrò come il binomio dux/judex costituisse l’elemento cardine del pensiero politico del Fiorentino:

«L’espressione un cinquecento diece e cinque può infatti leggersi coll’articolo indeterminato e la preposizione congiuntiva e allora (come già molti hanno notato), trascritta in numeri romani, ci pone di fronte al gruppo di lettere DXV che è anagramma della parola DVX; ma essa può anche leggersi come un cinquecento diece e cinque, dandosi così, mediante la stessa trascrizione in lettere latine, origine al gruppo grafico IDXEV che è anagramma della parola latina IVDEX. Dante ha voluto che l’una non meno che l’altra lettura fosse possibile, l’una come l’altra avendo uguale corrispondenza di significazione: voleva egli cioè e, ripetiamo, con matematica precisione, preannunciare la futura venuta di colui che avrebbe avuto in sé tutti gli elementi per essere ad un tempo riconosciuto non meno DVX che IVDEX. Tradotta in latino (latina è la lingua di Virgilio, cantore dell’Impero, […]), la profezia del Veltro imperiale del verso 43 del XXXIII canto del Purgatorio avrebbe certamente suonato: Dux atque Iudex missus a Deo».

La profezia del canto XXXIII del Purgatorio ritorna, seppure in forma diversa, nel XXVII del Paradiso, nei versi in cui Dante per bocca di S. Pietro, prima, di Beatrice dopo asserisce:

Del sangue nostro Caorsini e Guaschi
s’apparecchian di bere: o buon principio,
a che vil fine convien che tu caschi!
Ma l’alta provedenza che con Scipio
difese a Roma la gloria del mondo,
soccorrà tosto, sì com’io concipio.
[ ……………………………………….].
Ma prima che gennaio tutto si sverni
per la centesma ch’è là giù negletta,
raggeran sì questi cerchi superni,
che la fortuna che tanto s’aspetta,
le poppe volgerà u’ son le prore,
sì che la classe correrà diretta;
e vero frutto verrà dopo ’l fiore   (Par. XXVII, 58-63; 142-148).

Il vaticinio è chiaro: la Provvidenza divina, che mediante la virtus e il valore di Scipione aveva fatto sì che l’autorità imperiale, in pericolo per le vittorie di Annibale, venisse consolidata nella città di Roma, avrebbe soccorso presto la ‘vacillante’ Chiesa; non sarebbe trascorso molto tempo, inoltre, che il fiore avrebbe lasciato il posto al «vero frutto», sicché l’influenza dei cieli avrebbe fatto invertire la rotta alle ‘navi’ della società civile, facendole veleggiare sulla via del bene e della pace terrena. L’Impero non sarebbe rimasto «tutto tempo sanza reda», giacché gli astri con il loro influsso avrebbero reso possibile e conveniente l’avvento di un «messo di Dio», o Dux, che avrebbe annientato la meretrice (la Curia romana) e il gigante (la monarchia francese) «che con lei delinque» (Purg. XXXIII, 45). La sovranità imperiale, in tal senso, si configura come vera e propria emanazione divina, mentre l’imperatore altro non rappresenta se non quel Dux (Veltro/DXV) idoneo a condurre il genere umano alla felicità terrena, pur lasciando inalterate le vigenti forme politiche degli Stati ad esso sottoposti. A questa fondamentale teoria del pensiero dantesco, a metà strada fra le vecchie speculazioni della Scolastica medievale e il nuovo impulso filosofico-letterario di cui il Fiorentino è stato il vero precursore, si associa l’altra inerente alla centralità e al predominio dell’Italia e di Roma fra i popoli e le nazioni della terra. Postulati fondamentali, questi, che a distanza di secoli avrebbero costituito la pietra miliare per gli studi di insigni ed autorevoli critici della letteratura italiana ed europea.

 

 

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