Le tre riforme. Il premierato stravolge il patto fondativo della Repubblica è davvero rischiosa

 

 

by Luigi Gravagnuolo  – 2 Luglio 2024

 

Si possono mettere in discussione i principi fondativi della Repubblica? In altri termini la Costituzione è riformabile?

Prima di entrare nel merito del Ddl che introdurrà, quando approvato, il premierato nel nostro sistema istituzionale, vale la pena di interrogarci sulla domanda di cui sopra. Ad essa risponde la stessa Costituzione all’art. 138, che legittima non solo la possibilità di revisione costituzionale – salvo che per la ‘forma repubblicana’, art. 139 – ma ne disciplina anche la procedura.

E proprio ai sensi del citato art. 138, dal ‘48 ad oggi più volte sono stati avviati procedimenti di revisione costituzionale. Alcuni andati a buon fine, altri no. Tra le revisioni costituzionali andate a buon fine ricordiamo quella dell’art. 27, proibizione della pena di morte (L. Cost. 1/2007), quella dell’art. 51 , che ha introdotto nel testo costituzionale l’uguaglianza di genere (L. Cost. 1/2003), l’introduzione dell’obbligo del pareggio di bilancio (L. Cost. 1/2012) e la tutela costituzionale dell’ambiente (L. Cost. 1/2022).

Di valore strutturale sono state la Riforma del Titolo V (L. Cost. 3/2001) e la riduzione del numero dei parlamentari (L. Cost. 1/2020).

Tentativi di riforma della Costituzione più organici sono stati invece quello di inizio secolo, nel 2006 con Berlusconi al governo, e nel 2016 con Renzi. In entrambi i casi le leggi di riforma, pur approvate in Parlamento, sono state bocciate dal popolo per via referendaria. Per inciso, e solo per inciso, la riforma Renzi-Boschi aveva una sua dignità e una coerenza interna apprezzabili. Il popolo però l’ha esaminata, o quanto meno, si è espresso su essa e non l’ha confermata. Punto e a capo.

Il testo costituzionale, dunque, non è una mummia imbalsamata e non è sacrilegio provare a modificarlo. Lo si può fare, lo si è fatto e lo si è tentato di fare più volte.

Altra cosa è il merito delle riforme. Quello della riforma del premierato attualmente in itinere alle Camere, elaborata sotto l’egida del Ministro Maria Elisabetta Casellati e della premier Giorgia Meloni, appare inaccettabile nel merito, non per una questione di principio, o per motivazioni politiche strumentali. È davvero rischiosa per la nostra democrazia.

Il suo fondamento ‘culturale’ è la supposta equivalenza tra parlamentarismo e inciucismo: se sono i parlamentari ad eleggere il capo del governo c’è il forte rischio, se non addirittura la certezza, che essi tradiranno il mandato degli elettori per fare accordi alle loro spalle. È questo l’assunto ispiratore della riforma Meloni-Casellati. Una sfiducia ‘antropologica’ nella rettitudine dei parlamentari.

Con questa riforma il Governo – cfr. il suo comunicato stampa del 3 novembre u.s. – intende valorizzare “...il ruolo del corpo elettorale nella determinazione dell’indirizzo politico della Nazione; favorire la coesione degli schieramenti elettorali; evitare il trasfughismo e il trasformismo parlamentare”. Tradotto: il Governo intende tenere sotto giogo i parlamentari eletti.

Non solo. La riforma impegna il Governo a far varare dal Parlamento una legge elettorale che, grazie al premio di maggioranza, assicuri a chi superi una data soglia – si dice del 40% – ed abbia un voto in più degli altri, di ottenere il 55% dei parlamentari. I quali non avranno il potere di sfiduciare il premier eletto direttamente dal popolo, né uno dei suoi ministri, né di votare contro le leggi di emanazione governativa – praticamente già oggi tutte o quasi – pena lo scioglimento delle Camere. Scioglimento che sarebbe deliberato in autonomia dal primo ministro. Il Quirinale non potrebbe che prenderne atto. Oggi invece, se una maggioranza va in crisi in Parlamento, il Presidente della Repubblica ha il dovere inderogabile di non procedere allo scioglimento delle Camere senza aver verificato prima l’eventuale possibilità di una diversa maggioranza.

Dunque il 40 per cento degli aventi diritto al voto – che poi, alla luce dell’astensionismo ormai quasi strutturale nel nostro Paese, sarebbe non più del 25% del corpo elettorale – imporrebbe il premier al Paese senza che il Presidente della Repubblica ed il Parlamento possano metterci becco; il Capo del Governo così eletto sceglierebbe da sé i ministri – oggi essi sono nominati dal Presidente della Repubblica “su proposta” del Presidente del Consiglio dei Ministri, a sua volta nominato dal Presidente; lo stesso premier, forte del 55% dei parlamentari, eleggerebbe le cariche ‘politiche’ negli organi di garanzia: CSM, Corte Costituzionale e Authority varie; deciderebbe la governance della RAI; potrebbe varare a maggioranza leggi limitative della libertà di manifestazione del proprio pensiero, come sta facendo in questi giorni con la legge repressiva dei blocchi stradali; potrebbe limitare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. Questa stessa minoranza nel Paese-maggioranza nelle Camere potrebbe votare il ‘suo’ Presidente della Repubblica.

Tutto questo, ci informa il citato comunicato stampa del Consiglio dei Ministri del 3 novembre scorso, è ispirato “a un criterio ‘minimale’ di modifica della Costituzione vigente...” Proprio così, ‘minimale’ dice il comunicato!

Ora certo, nel mondo e nella storia ci sono e ci sono state democrazie presidenziali, ma la nostra Repubblica è nata in esatta antitesi a tale assetto istituzionale. La nostra costituzione è difensiva rispetto al rischio di ricadere nel fascismo o in qualcosa che gli somigli. È fondata su un principio ‘precauzionale’, lo ha ricordato di recente la senatrice a vita Liliana Segre nel suo già celebre discorso al Senato dello scorso 14 maggio.

La nostra è una costituzione anti-populista, la sovranità appartiene al popolo ma esso la esercita “nelle forme e nei limiti della costituzione”. E le ‘forme’ della costituzione sono quelle del primato del Parlamento sul Governo, non viceversa.

Smantellare l’impianto parlamentare della Repubblica suona come eversione del patto fondativo da cui essa nacque.

 

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