Aldo Bianchini
SALERNO – Dato che l’argomento non è dei più facili bisogna chiarire subito un concetto dopo l’intervista rilasciata al giornalista Sabino Russo del quotidiano Il Mattino di Salerno dal prof. Giuseppe Di Benedetto (già inventore, costruttore, sostenitore e propagatore dell’eccellenza della cardiochirurgia salernitana e non solo) che finalmente, dopo qualche timida apparizione nell’agosto del 2022, è sceso in campo in maniera diretta e senza veli, né freni.
L’articolo dal titolo “”L’intervista Giuseppe Di Benedetto «Torre cuore, il declino dopo lo sdoppiamento»”” (edizione 10.03.24 de Il Mattino) svela attraverso le parole del cardiochirurgo diverse verità; alcune delle quali il giornalista non ha raccolto e il professore ha narrato a bassa voce senza rovesciare sull’accaduto una tempesta mediatica; tanto è vero che nessuno fino a questo momento si è assunto la responsabilità di analizzarla.
Può anche darsi, anzi diamolo per scontato, che io analizzo a modo mio detta intervista ma è anche vero che qualcuno bisogna che incominci a farlo altrimenti la serena-severità delle parole dibenedettiane rischiano di cadere subito nel dimenticatoio per fare spazio alla cronaca quotidiana.
La verità, almeno per me, è una sola e Giuseppe Di Benedetto la conosce benissimo ma non la sbatte in faccia a nessuno perché è un “Signore” nato, con la S maiuscola; il problema generale e strutturale della cardiochirurgia di Salerno è nato dal primo minuto dopo il pensionamento del vero cardiochirurgo nostrano andato via dal Ruggi nel maggio del 2015 e il suo delfino Severino Iesu non è stato capace di gestire (se non solo per l’atto operatorio in se), ma anche Coscioni non ha saputo farlo, l’immenso patrimonio lasciatogli da colui il quale, nella sua unicità, poteva anche sdoppiare o quadruplicare l’eccellente reparto senza alcun riflesso sulla funzionalità tecnico-operativa dell’intero “modello organizzativo-lavorativo”; un patrimonio costituito certamente dall’efficienza delle sale operatorie ma anche, se non soprattutto, da tutto il resto nel contesto di un’organizzazione complessiva che necessita di una guida con capacità relazionali superiori alla media.
In un gioco di squadra ogni allenatore, è Di Benedetto in quel ruolo è stato unico, ha il suo delfino in campo ma se vuole avere successo deve fare in modo di mettere insieme chi guadagna uno con chi, invece, ne guadagna dieci; tutto qui il segreto semplice semplice. E Di Benedetto in questo era un maestro assoluto, in grado di utilizzare per le sue necessità sia la politica come anche le istituzioni e l’enorme stuolo di medici e paramedici. Tanto è vero che l sua notoria indisposizione nei confronti di Coscioni è venuta alla luce soltanto quando la sua nomina a primario poteva mettere in discussione la supremazia del suo delfino che, poi, ha accolto tra le sue braccia nella clinica dibenedettiana di Pineta Grande.
Non bisogna dimenticare, infatti, che l’era dibenedettiana incominciò nel ’91 quando il dr. Pasquale Valitutti (noto chiurugo vascolare) “sconsigliava l’impresa di realizzare la cardiochirurgia in un ospedale dove non avevano neanche le mascherine per andare in sala operatoria “.
La grandezza di Giuseppe Di Benedetto deve essere riconosciuta cominciando da quelle mascherine che presto arrivarono a migliaia, così come arrivò la Torre del Cuore dopo anni di esercizio nel ristretto settimo piano di una delle palazzine dell’ospedale. Una Torre che il cardiochirurgo ha organizzato in maniera splendida, dai sotterranei fino all’ultimo piano, utilizzando forse il cosiddetto “manuale Cencelli” per l’assegnazione di ruoli e competenze, ma anche grazie all’eccezionale capacità comunicativa (illuminante la presenza silenziosa e discreta della moglie, già giornalista milanese) verso l’esterno.
Invece di perdere tempo andando dietro alla cavolate delle scelte politiche, dei “chicchirichì” dei due galletti nel pollaio (Iesu e Coscioni), delle scemenze partorite dl tritacarne mediatico, tutti dovremmo preoccuparci di questo perché è in questo la chiave del problema; la cardiochirurgia amici lettori non si svuota (e se si svuota accade per ragioni esclusivamente pensionistiche) ma rischia di dissolversi nel nulla precipitando nel baratro della mala sanità che ogni giorno raccontiamo e condanniamo.
Ecco, se io avessi avuto la possibilità di creare il titolo per l’articolo di Sabino Russo avrei semplicemente scritto: “L’intervista Giuseppe Di Benedetto «Torre cuore, il declino dopo il mio pensionamento»”.
E lo avrei fatto per due motivi: il primo per ristabilire la verità e il secondo per dare a Di Benedetto quel che è di Di Benedetto; cosa che anche quei famosi o famigerati “cento rivoluzionari” non seppero fare, o non vollero fare, nel momento in cui al cardiochirurgo fu scippata la cattedra universitaria e nel momento del suo pensionamento consumato nel silenzio fragoroso di tutti.
Cento da una parte (Iesu) e cento dall’altra (Coscioni); i primi con un documento ufficiale, i secondi con una cena ufficiale e tante fotografie con video. Questa è, purtroppo, la cardiochirurgia di oggi.
Infine, non riesco a capire perché ancora oggi il prof. Di Benedetto non spiega i motivi per i quali, sotto la sua gestione e quando De Luca non governava la sanità, la cardiochirurgia fu “giustamente” sdoppiata.
Nota conclusiva:
=== A scanso di equivoci ritengo giusto e necessario pubblicare integralmente l’intervista a Di Benedetto pubblicata da Il Mattino il giorno 10 marzo 2024.
L’intervista Giuseppe Di Benedetto «Torre cuore, il declino dopo lo sdoppiamento»
Sabino Russo
Professore Giuseppe Di Benedetto, secondo lei, dopo la sospensione del capodipartimento Enrico Coscioni, ci saranno contraccolpi nella programmazione e nella gestione delle attività in cardiochirurgia?
«Credo che i contraccolpi possono essere relativi, perché a quanto mi risulta ci sono ancora colleghi bravi, in grado di gestire sia gli interventi di routine che eventuali emergenze che dovessero presentarsi. Certo è che una organizzazione deve essere prevista dal manager in qualche modo e in qualche forma, che può essere fatta con le risorse di cui dispongono».
Nell’atto aziendale che sarà presentato alle parti sociali la prossima settimana non è più previsto il paradosso del reparto doppione. Cosa ne pensa?
«Certo, adesso non c’è più ragione di avere due cardiochirurgie. È rimasto un solo primario e quindi è comodo farne una sola. È anche scontata la cosa. È un percorso già previsto, immagino, da tempo».
Lei è stato il padre della Torre cuore. Come creò il reparto e cosa aveva immaginato, allora, per Salerno?
«Parliamo del 1991, quando dovetti prendere servizio in ospedale e tra le prime persone che incontrai ci fu Pasquale Valitutti, chirurgo vascolare dell’epoca, che mi disse di avere delle velleità nel pensare di creare una cardiochirurgia in un ospedale dove non avevano neanche le mascherine per andare in sala operatoria. Ovviamente, come primo impatto, la cosa fu deprimente, ma siccome io sono testardo e credevo nelle mie possibilità e in quelle dell’ospedale mi misi a lavorare notte e giorno e realizzai quello che è stato un sogno per Salerno e una eccellenza».
Anche le altre strutture dell’ospedale, essendo stimolate da questa eccellenza, innalzarono il livello di qualità.
«Da un ospedale che si reggeva sulle mure della città, diventò un ospedale degno di questo nome, a cui la gente si rivolgeva con fiducia. Abbiamo dimostrato che i viaggi della speranza si erano invertiti per essere operati da noi. Tutto questo è costato sacrifici enormi da parte mia e di tutti i collaboratori, medici e non medici, perché sono stato particolarmente esigente. A vedere lo stato in cui ci troviamo oggi, sono la persona più addolorata di tutti».
Dove va ricercata, secondo lei, la genesi di questa situazione?
«È da riportarsi sicuramente alla creazione di due strutture di cardiochirurgia. Avevo fatto un programma, che prevedeva il miglior addestramento a Iesu, che avrebbe dovuto continuare il nostro lavoro. Lui ha continuato, facendo molto bene e migliorando gli standard che eravamo riusciti a ottenere, con tecniche nuove. Se fosse rimasta solo con Iesu, sono convinto che la cosa sarebbe andata benissimo per tutti e la cardiochirurgia sarebbe cresciuta ulteriormente. Nel momento in cui si mettono due galli in un pollaio, al di là dei nomi dei galli, si scatena un conflitto. Questa cosa le autorità politiche e sanitarie dovevano saperlo e prevederlo, ma se ne sono ampiamente fregati».
Le responsabilità, quindi, vanno cercate anche al di là del sistema strategico aziendale?
«Questo sistema non si muove indipendentemente dalla politica, perché queste sono figure nominate dalla politica e a lei devono, in qualche modo, rendere conto. Credo che sia inevitabile ipotizzare una responsabilità della politica, soprattutto tra le alte sfere di quella regionale».
Cosa ne pensa dell’addio di Iesu e di tutta la sua équipe?
«È stato costretto ad andarsene via, perché non c’erano più le condizioni per lavorare con serenità. Sicuramente non è stata una scelta facile ed è stata fatta con grande dolore. L’ho anche consigliato io di mollare tutto, perché non poteva continuare a lavorare sotto tensione e senza poter vivere i suoi risultati con tranquillità, così gli ho detto di venirsene al Pineta grande, con chi voleva seguirlo, e creare un nuovo centro di riferimento».
Si sente di dare qualche consiglio per il futuro della Torre cuore?
«È difficile farlo in questo momento, innanzitutto perché non sappiamo cosa succederà con Coscioni. La magistratura, per prendere provvedimenti di questa portata, avrà le sue motivazioni. Non so cosa succederà, anche perché Coscioni ha anche un altro procedimento. Ipotesi o previsioni, adesso, sarebbero solo chiacchiere».