da Matteo Claudio Zarrella
(già magistrato e presidente del tribunale di Lagonegro)
Gli ostinati ribelli Italienische Militar Internierten vengono mandati a ricredersi nei gelidi campi della Polonia, a Biala Podlasca e a Deblin. Tra gli ufficiali del No, da trasferire al Campo M-Stammlager 366/Z- (Zwveiglager) di Biala Podlaska, è il numero 58710. Devono consegnare, due giorni prima della partenza, gli zaini e i bagagli e, prima di salire sui carri-bestiame, scarpe, cinghie e bretelle. Il Comando avrebbe provveduto a spedire i bagagli al lager di destinazione. Sola cosa da portare, al collo, è il piastrino di riconoscimento. Perchè senza coperte, senza scarpe, senza cinture e bretelle? I tedeschi non danno risposte. La Storia, anche la piccola Storia richiede tempo per far capire le cose. I prigionieri devono viaggiare in condizioni precarie, tali da scoraggiare ogni tentazione di fuga, impossibile senza scarpe, senza coperte, coi pantaloni cascanti. Il treno attraversa la Germania che mostra i guasti rovinosi della guerra. Città devastate dai bombardamenti, palazzi sventrati e scheletriti, ammassi di rovine. Quando attraversa la quieta campagna pare che il mondo si conceda una sosta di pace. I prigionieri, alternandosi alla grata filo-spinata, osservano la fuga del tempo. Dopo tanti giorni e tante notti, interminabili e senza scopo, di inimmaginabile sofferenza, il treno con uno stridio di freni si ferma alla stazione di Biala Podlaska, a circa 150 chilometri ad Est di Varsavia, a poca distanza dal confine con la Russia. L’orologio segna le sei di prima mattina quando i prigionieri vengono fatti scendere. Vengono ammucchiati all’interno della Stazione per due ore. Alle 8,00, messi in fila, marciano stanchi per due chilometri alla volta del campo, menando i passi sul fango e sul nevischio, fuori dall’abitato di Biala Podlaska. Un polacco consegna furtivo ad un prigioniero una pagnotta di pane sapientemente tagliata da una croce in quattro parti da distribuire ai compagni. Una luce di speranza. Il Bene esiste, un seme che potrà dare i suoi frutti. Dopo un’ora di marcia si raggiunge il lager di Biala Podlaska. Si varca l’imponente cancello che pare tuonare con il verso di Dante: “Per me si va nella città dolente, per me si va nell’etterno dolore, per me si va tra la perduta gente. Lasciate ogne speranza, voi che intrate”. Si va in un mondo fuori dal mondo. I prigionieri vengono portati alla grande piazza fiancheggiata ai due lati da schiere di baracche. Dopo l’immancabile conta, numero dietro numero, alla rinfusa prendono alloggio nelle baracche assegnate. Ognuno cerca il posto più adatto alla propria solitudine. Si va, poi, reparto per reparto al centro disinfestazione, dove gli abiti vengono avvolti in una coperta, immessi in un deposito e fatti oggetto degli spifferi di una caldaia a vapore. Spogliati, nudi, i prigionieri vengono introdotti in uno stanzone per essere sferzati da violenti getti d’acqua. Tornati alle baracche, esausti, s’adagiano nelle cuccette disposte “a castello”, per dormire avvolti in una copertina di lana, in tre per ogni piano, su pagliericci che pestati ogni notte si riducono a masse polverose, focolai di cimici e pidocchi. La mattina del giorno dopo è tempo di schedatura. Una pratica che si ripete in ogni lager. Albino viene ispezionato. Deve posare le poche cose rimastegli: carte, penne, matite. Messo, insieme ad alcuni compagni, di fronte al muro per comparire in fotografia con il numero 58710 ben esposto. Schedato, registrato, immatricolato, è tra i nuovi abitanti del lager di Biala Podlaska. Il lager si rivela un immenso campo rettangolare recintato da reticolati di filo spinato. Diviso in due settori che prendono nome da regioni e da città italiane. Agli angoli stazionano alte torrette con le sentinelle comandate a sparare contro incauti prigionieri, avvicinatisi ai recinti o avvistati di notte, fuori baracca, dai fasci di luce proiettati da possenti riflettori. Bastano pochi guardiani a tenere sotto sorveglianza una massa enorme di prigionieri. Ci vivono da tempo prigionieri anziani che mostrano i segni di un abbrutimento irreversibile. “Qua bisogna saperci stare, I russi vi sono morti a migliaia”. Parlano come se fossero nati lì dentro, disinteressati al mondo di fuori. Il campo era stato temporaneamente chiuso perché la Croce Rossa Internazionale lo aveva dichiarato inabitabile. Vi erano morti a migliaia prigionieri russi, colpiti da epidemia di tifo petecchiale. L’acqua non era potabile per inquinamento delle falde causato dalla putrefazione di cadaveri russi sepolti in una enorme fossa, nella campagna ai margini dei reticolati. I prigionieri francesi, protetti dalla convenzione di Ginevra, assistiti dalla Croce Rossa Internazionale, mandati cautelativamente in altro settore, erano sicuri di poter sopravvivere alla guerra. Il giorno dopo l’ingresso nel lager i prigionieri italiani sono adunati nel piazzale dell’appello. Dopo una lunga ed estenuante conta, giunge il Comandante del campo, Ufficiale delle SS. a spargere disprezzo su di loro. Questo il senso delle sue astiose parole, mitigate dal tono calmo dell’interprete: “Voi non siete dei normali prigionieri di guerra; i prigionieri di guerra sono avversari, leali combattenti che cadono prigionieri e meritano rispetto da soldati; voi siete dei volgari traditori badogliani che ci avete improvvisamente e proditoriamente voltate le spalle; perciò non possiamo, non dobbiamo considerarvi prigionieri di guerra, ma pericolosi internati a completa disposizione del grande Reich e del nostro grande Führer….Tenete bene a mente una cosa:-voi non siete nessuno, siete una cosa, uno strumento, del quale disporremo come crederemo meglio, quando e dove vogliamo!“. Albino riflette, sconsolato: “Noi internati militari del No, siamo nessuno. Non ci riconosce la Croce Rossa, non ci tutela il governo del Re, ci è contro il governo del Nord Italia. Siamo nessuno perchè è nessuno chi è senza diritti”. Poi uno scatto di pensiero: “A noi italiani, a noi soli, rimane il diritto di scegliere da che parte stare, poter dire No! poter scegliere di stare nel lager e avere la dignità di resistere”.
Mi sono commosso a questa lettura. Mio padre, tenente carrista a Creta, fu internato a Biala Podlaska fino alla primavera del ’45.