dal prof. Nicola Femminella (docente – storico – giornalista)
Chiniamo il capo di fronte alla ineluttabilità delle vittime del femminicidio che in questo inizio d’anno conferma le cifre orrende degli anni passati. Siamo rassegnati davanti a tale fenomeno funesto, tragico che lacera l’animo di ognuno. A nulla valgono gli inasprimenti delle pene adottati nel Parlamento per frenare o contenere il numero dei casi che, impietosi, ci sovvengono dalla cronaca quotidiana dei mezzi di informazione. Sembra che un virus sconosciuto abbia preso a circolare nelle città e nei piccoli borghi. Come un serial killer esce dall’ombra, all’improvviso, e qualche donna sventurata viene trovata senza vita. Il più delle volte l’omicida è la persona con la quale la povera vittima aveva condiviso la propria esistenza. Neppure i figli piccoli riescono a trattenere le mani assassine, destinati a vivere il resto della loro vita senza genitori. Un destino amaro per gli infanti, senza che ne abbiano alcuna colpa. Il triste avvenimento renderà la loro vita perennemente intrisa di dolore. Ma il femminicidio non è il solo fenomeno ineluttabile presente nella nostra povera Italia. Ve ne sono altri. Continua a perdurare il debito pubblico nei conti generali dello Stato. E anche qui sembra che non se ne possa venire a capo in nessun modo. I conti in rosso penalizzano le future generazioni e pesano sulle necessità primarie del Paese, per cui la sanità, la scuola, le opere a difesa del suolo ed altri settori bisognosi di risorse finanziarie denunciano carenze e insufficienze che non si riescono a colmare. Sono settori vitali per la nostra quotidianità, talvolta contengono diritti ineludibili per tutti noi. Se ne parla, cambiano i governi, si annunciano provvedimenti salvifici, ma lo stato attuale permane, inamovibile come quei massi che nessun intervento riesce a scalfire, se non si ricorre ad un carico straordinario di dinamite. Ancora qualche altro fenomeno per il quale la speranza che si apporti il rimedio necessario cade come cadono le foglie di autunno. L’evasione fiscale, diffusa in tutte le regioni d’Italia, derivante dalle attività libere, senza ritenute d’acconto all’origine, continua a mantenere i suoi primati e guai a parlarne seriamente da parte dei governanti. Interventi in grado di annullare l’anomalia costerebbero ai partiti la perdita sicura di milioni di voti, poiché i soggetti che la alimentano rappresentano essi stessi un partito forse decisivo nelle tornate elettorali per determinare la maggioranza di governo. E quindi nessun sole all’orizzonte a illuminare le zone opache, nelle quali non si rilasciano ricevute e fatture, cariche di ossigeno per i conti pubblici. L’evasione è bella e guai a chi la tocca. Potrei continuare, elencando altri fenomeni negativi che imperversano nel bel Paese, che gli impediscono di essere una comunità moderna, rispettosa delle leggi che impongono, fra l’altro, a ciascun cittadino di contribuire al benessere della comunità nazionale. Se tutti facessero il proprio dovere, un’alba luminosa rischiarerebbe il risveglio di tutti e porterebbe le risorse disponibili per potenziare servizi e opere pubbliche utili per i cittadini. I loro diritti di certo volgerebbero al meglio.
Le criticità citate hanno ormai acquisito una presenza stabile nel regolare la nostra vita e non credo che saranno rimosse facilmente. C’è un altro fenomeno però che non si accetta e che si potrebbe invece risolvere con un colpo di spugna facile da porre in atto, un problema sempre più sentito dai cittadini. Mi riferisco alla carenza di personale medico e paramedico che domina la scena dalle Alpi alla Sicilia. L’argomento angustia non poco gli ospedali dei quattro comprensori del Cilento. Le lunghe attese vincono sulle patologie anche su quelle gravi e allarmanti. Le liste dei pazienti in tale condizione procurano sussulti e timori solo a sentirli. La gente rimedia con la sanità privata che svuota le tasche dei poveri italiani, costretti a sostenere costi talvolta esosi, impossibili da puntellare. Chi ne ha bisogno, spende buona parte della pensione e del salario, quando c’è da associarla ai farmaci il cui costo è altissimo, se non è erogato dall’apparato sanitario pubblico. Ogni giorno di più si afferma la calamità delle attese e io stesso l’ho verificata, quando, timoroso, ho provato a richiedere una prestazione medica al CUP, un acronimo che, a pronunciarlo, rende … cupa la data ricevuta dalla telefonista per la prestazione medica implorata. Ebbene a fronte di tale calamità gli esperti ritengono che la semplice eliminazione del numero chiuso adottato dalle facoltà di medicina nelle nostre Università potrebbe risolvere il problema. Più iscritti a medicina, più medici laureati disponibili per riempire i vuoti negli organici degli ospedali e sopperire ai bisogni della salute pubblica. Quale malefica ragione impedisce una decisione in tal senso? È da oltre un secolo che la facoltà di medicina è al centro di una diatriba riguardante coloro che ad essa si possono iscrivere. Essa è da sempre ritenuta una laurea privilegiata per coloro che la perseguono, perché innalza lo status sociale di chi la consegue. Fino al 1923 era accessibile solo per gli studenti che conseguivano il diploma di licenza liceale, ritenendo tali studi momento di formazione adeguato a coloro che erano destinati a svolgere un ruolo di spicco nella società costituita. In tale data furono ammessi gli studenti che provenivano anche dal liceo scientifico. La selezione quindi era determinata dal titolo di studio in possesso. Il 1969 fu un anno importante. Ricordo bene l’annuncio della liberalizzazione completa della facoltà di Medicina in quell’anno, in cui conseguii la mia laurea in Filosofia presso l’Università di Napoli. Ora tutti potevano accedere alla facoltà in questione, purché in possesso del titolo di studio di scuola superiore. Una rivoluzione giunta sull’onda dei movimenti degli studenti che segnò negli anni ‘68 e ‘69 eventi storicamente rilevanti, perché resero le masse studentesche protagoniste di eventi e vicende destinate a rimanere nelle pagine della grande Storia, di cui ancora oggi si analizzano le azioni che espressero in tutta Europa. La legge fu la N° 910 dell’11 dicembre del 1969, detta la “Codignola”, e portava le firme di Rumor, Ferrari Aggradi e Colombo. Essa segnò una opportunità per coloro che aspiravano a tale professione, che in precedenza non avrebbero potuto acquisire. Furono in molti a utilizzarla, per cui le iscrizioni a medicina salirono di gran numero in poco tempo. Queste, fu detto all’inizio degli anni ’80, si scontrarono con la insufficienza dei docenti e delle strutture logistiche che non garantivano la disponibilità di allestire laboratori, aule idonee e le attività necessarie per i laureati alle prese con i corsi di specializzazione. Intervenne anche l’Unione Europea a richiamare gli Stati membri a garantire qualità ed efficienza per una istruzione universitaria di qualità certificata da dati inoppugnabili. Sicché nel 1987, tramite apposito decreto, il Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Ortensio Zecchino introdusse il numero chiuso e una selezione degli studenti da organizzare ogni anno tramite quiz. Ci furono polemiche e ricorsi vari, che spostarono al 1999 la trasformazione del decreto in legge vigente. Da allora si ebbero i famigerati quiz spesso contestati anche per qualche imbroglio scoperto nel corso degli anni e il numero dei laureati in medicina in costante ribasso. Crebbero le spese per le famiglie i cui figli aspiranti medici venivano parcheggiati presso facoltà diverse o costretti a iscriversi presso atenei in Romania, in Spagna e in altri Paesi. Fino ad oggi con medici che mancano in tutti i settori della medicina e le aziende sanitarie assillate dagli organici vacanti e incapaci di garantire il servizio sanitario a migliaia di utenti.
Anna Maria Bernini, Ministro dell’Università e della Ricerca, dopo aver annunciato la sostituzione dei quiz con altre modalità per la selezione degli aspiranti, ha dichiarato che “il numero chiuso non è più possibile e compatibile. Sono assolutamente favorevole all’apertura … è importante allargare le maglie del corso di laurea in Medicina e Chirurgia, perché c’è bisogno di formare medici e sviluppare delle specializzazioni in materie che ancora non esistono, come ad esempio la medicina della robotica, la chirurgia dei microchip”. “ … abbiamo già dato 4.000 posti in più ne daremo 30.000 nei prossimi sei anni. Questo è solo l’inizio, non significa che non allargheremo ancora. L’importante è farlo miratamente e progressivamente per evitare di aprire una porta e di far entrare in maniera indiscriminata un numero tale di studentesse e studenti da non garantire la qualità dell’offerta formativa”. Parole che ci rimandano ad un futuro che speriamo sia prossimo e favorevole alla tutela della comunità nazionale. Le lunghe attese sono una turpitudine per la Nazione e un turbamento per i cittadini.