Aldo Bianchini
SALERNO – Dopo circa dieci anni si conclude dinnanzi alla Suprema Corte di Cassazione la lunga vicenda della cosiddetta “rivolta dei portatori” con la conferma della sentenza di condanna per i due unici imputati che avevano promosso il ricorso contro le precedenti sentenze (con pene varie e concessione della sospensione) che avevano registrato un solo assolto (il capo paranza di San Giuseppe) e diciannove condannati di quei famosi, o famigerati, portatori delle statue per la processione religiosa del 2014 della festa di San Matteo, Patrono di Salerno; insomma gli unici venti individuati tra i rivoltosi che disubbidirono agli ordini della Curia arrivando addirittura a mettere a terra la statua del protettore davanti alla Provincia ed a farla entrare nel palazzo di città.
Quella sera del 21 settembre 2014 anche io, come tanti colleghi giornalisti, ero in postazione di fronte all’ingresso principale del Palazzo di Città in attesa della processione per capire se i portatori di San Matteo avrebbero realmente disubbidito agli ordini della Curia e sarebbero entrati nel Comune; e devo confessare che ero indignato per le scelte portate avanti testardamente da una Curia che si allontanava sempre più dal cuore della città e dalle sue millenarie tradizioni (anche se l’entrata del Santo in Comune era una cosa recente ed afferente gli accordi tra Mons. Pierro e De Luca).
Naturalmente io come tanti altri le abbiamo rispettate quelle scelte scellerate che volevano rivoltare come un calzino la storia di un evento sempre molto atteso, anno dopo anno, come la lunga (fisicamente e temporalmente) processione del Santo Patrono di Salerno “San Matteo” detto il Santo dalle due facce. Perché ?
Semplicemente perché San Matteo, detto il gabelliere per via della sua passione per i conti, le contabilità ed i bilanci, era molto ondivago e si barcamenava tra la necessità di incassare molto e l’esigenza di non scontentare nessuno, o quasi; tanto da guadagnarsi, nei secoli, non solo l’adorazione di Salerno (anticamente dedita al commercio ed alle gabelle) ma anche quella dei banchieri, dei contabili, dei doganieri, degli esattori, dei ragionieri e della Guardia di Finanza, solo per citare alcune categorie.
Ho scritto molto sugli incresciosi accadimenti di quella memorabile serata ed oggi riprendo a farlo alla luce della sentenza definitiva della Suprema Corte di Cassazione con la quale è stata scritta, sembra, la parola fine alla vicenda giudiziaria; ma come tutte le sentenze anche quella del 21 novembre 2023 emanata dalla Cassazione con il n. 1253 (terza sezione penale), con la conferma della condanna dei due colpevoli pervenuti alla sua osservazione, rimarrà nella storia con un numero e una data e con una breve narrazione dei fatti portati a giudizio senza che i supremi giudici abbiano avuto la minima possibilità di conoscere ed esaminare l’intera e lunga vicenda che aveva accompagnato l’arcivescovo Luigi Moretti dal suo arrivo a Salerno nel settembre 2010 fino a quella orrenda serata del 21 settembre 2014.
Per valutare il clima di quella serata bisogna partire proprio dall’arrivo di Mons. Moretti a Salerno quando da Roma si era annunciato sussurrando: “Salerno ? per me è un puntino sulla carta geografica”; e infatti Lui, presule dedito alle gabelle ed ai bilanci nella Curia capitolina veniva a Salerno, su espresso e diretto ordine del Papa (sbagliatissimo !!), per fare pulizia burocratica e finanziaria e per “cancellare” definitivamente anche il ricordo del lungo apostolato di Mons. Gerardo Pierro (cosa forse mai avvenuta nella storia della Chiesa Cattolica Romana) sostenuto dal suo mitico segretario Don Comincio Lanzara, quasi come se i due fossero stati degli appestati e delinquenti abituali. Così come li aveva indicati, combattuti e vinti la famosa “congiura di palazzo” ordita da alcuni ben noti sacerdoti congregati tutti assieme contro quel potere che non accettavano come dogma e contestavano anche per le vie giudiziarie mettendo l’allora pm d’assalto Roberto Penna non solo nelle condizioni di assediare e sequestrare l’albergo annesso alla Colonia San Giuseppe (Angellara Home) ma di entrare nelle stanze della Curia per incredibili, devastanti e irripetibili perquisizioni.
E in quei quattro lunghi anni, tra il 2010 e il 2014, tutto era cambiato in Curia con i congiurati che avevano conquistato il pieno potere condizionando (forse !!) anche le decisioni del presule Moretti che di quella realtà precedente conosceva poco o niente, ovvero conosceva soltanto la versione dei fatti fornita dai congiurati; e gli stessi congiurati avevano portato l’arcivescovo allo scontro diretto sia con i portatori che mal sopportavano le variazioni delle tradizioni, sia con le istituzioni politico-amministrative della città (leggasi Vincenzo De Luca) che con il predecessore di Moretti avevano, quasi in simbiosi, modellato e rilanciato alcuni aspetti (anche poco religiosi, se vogliamo) della lunga e storica processione.
Insomma la presenza di Mons. Moretti a Salerno e la sua palese ostilità contro l’ambiente ancora infarcito del ricordo di Pierro e Lanzara si erano trasformati subito in una cruenta battaglia politica occulta e mai chiara, che aveva investito i deluchiani (molti) che sostenevano le tradizioni e gli antideluchiani (pochi) che dalla Curia speravano di trarre gli elementi utili per sovvertire il deluchismo così come nella stessa Curia era stato sovvertito l’ordine costituito e tutelato da Pierro e Lanzara.
La storia della Curia, però, non si sovrappose a quella del Comune ed alla fine, tempo ancora qualche anno, arriva a Salerno il vero nuovo pastore di anime “Mons. Andrea Bellandi” che con molta oculatezza e lentamente ha cercato di ristabilire l’ordine pregresso senza mai urtare la suscettibilità dei congiurati che ancora governano la Curia anche se con molto meno ardore in quanto i capi spirituali sono ormai quasi tutti passati a miglior vita.
Questa, anche se in estrema sintesi, è la storia vera di quegli anni, o meglio è la narrazione storica di quegli anni; narrazione sulla quale, ovviamente, la Cassazione non ha potuto intervenire perchè attenutasi al sacrosanto dovere previsto dalla giustizia commutativa con l’esame di un fatto e la traduzione in pena delle responsabilità.
E la Cassazione ha giustamente sentenziato che “che l’offesa a un ministro di culto è rivolta a tutta la comunità religiosa che rappresenta e vilipende la stessa religione. La condotta consiste nel tenere a vile, ovvero nel manifestare un’offesa volgare e grossolana, che si concreta in atti che assumano caratteri evidenti di dileggio, derisione, disprezzo”.
Questo fa capire che diventa irrilevante, ai fini dell’esclusione del reato, il movente, politico o sociale, che muove i dissenzienti. Insomma, come dire, non riconosce ai portatori-istigatori il diritto di critica che, pur rimanendo lecita, la protesta di quella sera non può essere ricondotta “nella espressione motivata e consapevole di un apprezzamento diverso e talora antitetico, risultante da un’indagine condotta, con serenità di metodo, da persona fornita delle necessarie attitudini e di adeguata preparazione”.
Non passa, quindi, l’attenta linea difensiva proposta dall’avv. Cecchino Cacciatore (difensore dei tre principali imputati, due dei quali arrivati in Cassazione) che proprio su questo aspetto, socio-religioso, aveva richiamato l’attenzione dei giudici evidenziando con molta chiarezza i confini della “dottrina ecclesiastica” compresa tra un sentimento religioso individuale ed uno collettivo, che spesso dà la stura ad un collettivo coinvolgimento affettivo ed emozionale del sentimento, con le conseguenze pratiche di quella sera della lontana festa del Santo Patrono.
Ma la storia di quella serata, della congiura di palazzo, dello scontro tra i portatori (che pure commisero l’efferatezza dei girotondi dinanzi alle ex abitazioni di due noti criminali) e l’arcivescovo e del silenzioso ma cruento scontro politico-religioso, è molto lunga e necessiterebbe di decine e decine di pagine scritte.