by Luigi Gravagnuolo 13 Gennaio 2024
Non c’è negazionismo che tenga, che il pianeta stia vivendo una fase di tumultuose turbolenze climatiche è sotto gli occhi di tutti: rapido ed esagerato surriscaldamento, ghiacciai che si sciolgono, mari che si alzano, alluvioni e inondazioni che si alternano a siccità e carestie, nuovi virus, bacilli e batteri che si diffondono nel mondo. Il cambiamento climatico è in corso. Ciò è indiscutibile.
Si può piuttosto discutere – e lo si fa – sulle sue cause. La scienza è divisa. La stragrande maggioranza dei climatologi indica la causa degli sconvolgimenti in atto nelle emissioni di gas a effetto serra, prodotte dall’azione dell’uomo. Altri scienziati minimizzano le responsabilità dell’uomo, evidenziando che analoghe fasi di cambiamenti climatici sono avvenute nella storia in epoche in cui non c’erano le manifatture, lo sfruttamento degli idrocarburi a fini energetici, i motori a combustibile fossile e tutto quanto oggi viene indicato come fonte di inquinamento atmosferico. Non entriamo qui nel merito della querelle – non ne abbiamo la competenza – pur se ci sembra verosimile che gli uomini siano da considerarsene quantomeno cor-responsabili. Fatto sta che, com’è sempre accaduto nella storia, il cambiamento climatico sta producendo effetti demografici, economici e geopolitici di proporzioni bibliche.
Come farvi fronte? E soprattutto, com’è orientata l’UE?
Nasofino, Trottolino, Tentenna e Ridolino – i due topolini e i due gnomi di Spencer Johnson in ‘Chi ha spostato il mio formaggio?’- erano abituati a trovare il formaggio sempre allo stesso posto, nel labirinto in cui convivevano. Restarono perciò di stucco quando, un giorno, non lo trovarono più. Qualcuno lo aveva spostato. Reagirono in maniera diversa. Tentenna restò disorientato e non sapeva cosa fare, Ridolino confidò che fosse solo una novità momentanea e che tutto presto sarebbe tornato al suo posto. Si limitò ad aspettare. Nasofino e Trottolino, i due topini, invece capirono subito che era cambiato qualcosa di strutturale e si misero a cercare per tutto il labirinto, fin quando non ritrovarono il formaggio in una nuova collocazione. Ridolino quando, tardivamente, capì che il formaggio non sarebbe più tornato al solito posto, realizzò che doveva darsi da fare e si mise anche lui alla ricerca del formaggio. Alla fine ci arrivò, ma Nasofino e Trottolino avevano fatto prima e lo avevano già mangiato. I rapporti di forza nel labirinto erano cambiati: pur essendo sulla carta meno forti fisicamente e meno preparati culturalmente, i topini avevano preso il sopravvento. Avevano capito prima il cambiamento.
Edgar Morin dice grosso modo la stessa cosa in due righe: «La natura propria delle crisi è di scatenare la ricerca di soluzioni nuove, e queste possono essere sia immaginarie, mitologiche o magiche, sia, al contrario, pratiche e creatrici».
Ecco, atteso che siamo già in presenza di una gigantesca crisi climatica su scala planetaria, come sta reagendo l’Unione Europea? Ha trovato o sta trovando soluzioni ‘pratiche e creatrici’? O sta confidando che sia solo una turbolenza congiunturale e che non ci sia altro da fare che aspettare che tutto torni al suo posto? O ancora, sta rincorrendo soluzioni ‘immaginarie’?
Non c’è ombra di dubbio che su questo terreno la bistrattata UE, sempre tentennante, abbia assunto per tempo decisioni forti. Su esse ci confronteremo durante la campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento Europeo. Anche con animosità, verosimilmente: sono in gioco interessi rilevanti, difficilmente componibili.
Un esempio lampante: l’ILVA di Taranto. Che sia una fonte di inquinamento atmosferico è evidente; eppure produce ricchezza per l’Italia e dà lavoro a una decina di migliaia di persone più l’indotto. Adottare soluzioni drastiche a difesa dell’ambiente – e della salute delle persone – comporta per migliaia di famiglie e per il territorio la perdita del reddito su cui hanno costruito le proprie certezze per un secolo. Per converso privilegiare il lavoro qual esso è oggi accentua il danno ambientale. Soluzioni tecnologiche innovative atte a contenere le emissioni nocive delle ciminiere sarebbero una terza soluzione. La politica deve scegliere.
Vale per quasi tutti i settori produttivi. Sul terreno dei trasporti e della mobilità dei cittadini, ad esempio. L’UE ha scelto di spingere sulla conversione all’elettrico dei motori delle auto e dei mezzi pubblici, stabilendo per il 2035 la fine della circolazione sulle strade d’Europa di mezzi di trasporti a combustibile fossile. Ma ci sono importanti forze politiche che sono contrarie a questa decisione, in quanto ideologica. Rispondente a loro avviso all’ideologia woke. Chiederanno perciò il voto promettendo che si impegneranno a rinviare la scadenza oltre il 2035. Matteo Salvini: “Chi ha proposto queste norme a Bruxelles o è ignorante, o è arrogante, oppure ha interessi. Dobbiamo aiutare la Cina a vendere batterie elettriche? Mi sembra demenziale … Solo auto elettriche dal 2035 è un’ideologia folle da parte della burocrazia europea!”
Fatto sta che la decisione ‘demenziale’ è stata assunta in sede europea col voto favorevole anche del Governo di cui lui è Vicepresidente. Ma questo forse è woke, lasciamo perdere.
Dunque, a giugno, nelle urne europee dovremo scegliere: appoggiare il Green Deal, l’insieme cioè delle norme adottate dall’UE al fine di accelerare la transizione ecologica, o rallentarne il cammino?
Il Green Deal mira a rendere l’Europa climaticamente ‘neutra’ entro il 2050, a rilanciarne l’economia grazie alla tecnologia verde, a creare industrie e trasporti sostenibili e a ridurre l’inquinamento atmosferico. A questo fine l’UE si è data un cronoprogramma di obiettivi da raggiungere gradualmente fino al 2050.
Prima tappa il 2030. Nel corso di vigenza della prossima legislatura comunitaria, 2024-2029, l’Europa dovrà ridurre le proprie emissioni di gas a effetto serra di almeno il 55%. È il cosiddetto pacchetto “Pronti per il 55%”, votato nell’aprile scorso dal Consiglio Europeo all’unanimità.
Per raggiungere l’obiettivo del -55% bisognerà agire su tutti i settori portanti dell’economia: i trasporti, compresi quelli marittimi ed aerei, l’edilizia, l’agricoltura e la silvicoltura, i rifiuti, l’industria manufatturiera.
È un piano titanico, finanziariamente e socialmente tanto ambizioso quanto costoso. Perciò l’UE ha messo in campo enormi investimenti per il sostegno agli Stati e, per loro tramite, ai settori produttivi, alle famiglie ed ai cittadini.
In questa cornice il nostro PNRR, così come emendato su richiesta del Governo Meloni, prevede per la transizione ecologica investimenti di 70 miliardi di euro, segnatamente nei settori dell’agricoltura, dell’energia e trasporti, dell’edilizia e delle risorse idriche. Miliardi che ci sono stati devoluti dalla Commissione Europea, parte in conto capitale, parte in prestito a tassi agevolati, vincolandoli a obiettivi da raggiungere nei tempi fissati nel cronoprogramma concordato. Se il nostro Paese dovesse mancare un traguardo intermedio, si vedrebbe definzanziate parte delle risorse assegnateci.
Ciò alla luce degli attuali equilibri politici di Bruxelles. Ma a giugno si vota e nuovi ed eventuali equilibri politici nel Parlamento Europeo potrebbero indurre a rivedere le intese già sottoscritte.
Il futuro della transizione ecologica europea dipenderà quindi dall’esito del voto. Toccherà a noi elettori dare un mandato chiaro ai futuri parlamentari e commmissari europei: andare avanti senza incertezze sul Green Deal o frenare.