by Luigi Gravagnuolo 3 Gennaio 2024
C’è debito e debito, ce lo ha ricordato ed insegnato Mario Draghi con riguardo al debito pubblico. C’è quello ‘buono’, che gli Stati o gli Enti Pubblici contraggono a scopo di investimento, e c’è quello ‘cattivo’ che non genera crescita.
Quello buono produce ricchezza e, a regime, riduzione del debito pubblico complessivo. Per analogia col privato: se un imprenditore si indebita con una banca per comprare macchinari che efficientizzano i processi produttivi della sua azienda, nell’immediato accresce il suo indebitamento; ma, grazie all’investimento fatto, aumenterà la quantità e migliorerà la qualità dei suoi prodotti, conquisterà nuovi spazi nel mercato, ammortizzerà senza difficoltà l’investimento e, entro un tot numero di anni, andrà in attivo. Per converso, se non investe per tempo, anche indebitandosi se necessario, rischia di essere tagliato fuori dal mercato.
Nel pubblico funziona grosso modo alla stessa maniera. Oggi tutti gli economisti più accreditati sostengono che investire nelle info-strutture quantico-digitali e nella green economy comporta in prospettiva vantaggi strategici rilevanti. È sulla base di questa considerazione che l’UE ha deciso di sostenere con forza, per tutto il suo spazio economico, gli investimenti nei due settori sopra indicati. Il nostro PNRR, segmento italiano del programma europeo Next Generation EU (NGEU), risponde a questi criteri.
Sotto questo profilo bene ha fatto il governo Meloni a proseguire sulla strada tracciata da Mario Draghi, salvo le necessarie modifiche, peraltro non sostanziali, concordate con la Commissione Europea al fine di adeguare il PNRR alle nuove esigenze emerse con i nuovi scenari geopolitici e ambientali.
C’è poi il debito pubblico ‘cattivo’, quello che in estrema sintesi possiamo definire ‘elettorale’. Le forze politiche che governano uno Stato – o una Regione, o un Comune – spendono in debito per soddisfare le aspettative delle proprie ‘clientele elettorali’, ovvero per conquistare nuovi consensi. Sono spese assistenziali, di corto respiro, produttrici solo di nuovo indebitamento a causa degli interessi passivi che producono. Interessi che costano vieppiù allorché il rating di uno Stato si abbassa, cosa che accade quando esso continua ad indebitarsi senza credibili prospettive di rientro. Ad oggi, ad esempio, in Italia il 4% del pil, circa l’8% del totale della spesa pubblica annua, è destinato a pagare gli interessi.
I governi degli ultimi quindici anni della ‘prima repubblica’ furono in questo particolarmente dissennati, portando il debito pubblico italiano dal 55% del pil del 1980 al 122% del ‘94! Fu uno scialacquio che ruppe ogni argine. Fino a tangentopoli, quando l’esondazione travolse la prima repubblica. Il portato peggiore di quella stagione fu la convinzione generalizzata negli Italiani che quella fosse una nostra ricchezza reale. Vivemmo per un quindicennio di una ricchezza drogata, al di sopra delle nostre possibilità, spendendo in debito. E non siamo più riusciti a tornare indietro. Se si vuole capire cos’è il ‘debito cattivo’, si rilegga la storia d’Italia tra il 1980 e il 1994.
In queste condizioni, nel ‘94 decidemmo di aderire all’euro. Adottando la stessa moneta degli altri partner saremmo stati meglio ‘protetti’ dal rischio di finire nell’insolvenza sovrana, con tuti i disastri che ne sarebbero conseguiti, ma avremmo dovuto impegnarci ad allineare il nostro debito pubblico a quello degli altri Paesi dell’Eurozona. E il punto di partenza non era lo stesso.
Mentre i Paesi del Centro e Nord Europa avevano un rapporto debito/pil intorno al 60%, l’Italia lo superava per il doppio. I Paesi ‘frugali’ si trovarono perciò in una difficoltà non di poco conto: se ci avessero tenuti fuori dall’Eurozona, la competitività sul prezzo dei nostri prodotti sarebbe stata un rischio enorme per le loro economie; tanto più che l’industria manufatturiera italiana era e resta di prim’ordine. Se ci avessero invece integrati nell’Eurozona, avrebbero messo a rischio la stabilità della nuova moneta. Volevano perciò nello stesso tempo tirarsi l’Italia dentro l’euro e contenerne i rischi.
Il Patto di Stabilità sottoscritto a Maastricht nel ‘97 rispose a questa duplice esigenza: imbrigliare l’Italia per impedirle di fare concorrenza ‘sleale’ sui mercati con la sua lira svalutata e difendersi dal pericolo di contagio per un’eventuale crisi sistemica del nostro Paese. Dopo lunga negoziazione gli Stati contraenti, Italia compresa, si obbligarono a tenere il rapporto deficit/pil entro il 3% e quello debito/Pil al 60%.
L’Italia avrebbe dovuto allinearsi agli altri Paesi entro il primo gennaio 1999: in due anni avrebbe dovuto ridurre il rapporto debito/pil di sessanta punti, una follia solo a pensarla!
Da allora, governo dopo governo, si sono succedute manovre finanziarie lacrime e sangue, che tuttavia non ci hanno neanche portato ad avvicinarci all’obiettivo. Anzi, oggi il rapporto debito/pil del nostro Paese è salito al 144,4%! Ciò anche perché la gestione della finanza pubblica dei nostri governi dal ‘97 ad oggi è stata altalenante. Mentre i governi di centrosinistra riducevano la spesa – e perdevano consenso – Berlusconi profittava della perdita di consenso degli avversari, conquistava la maggioranza e ricominciava con la finanza allegra. Fino a che, nel 2011, l’Italia non fu sul punto del crollo finanziario. Fu salvata dal governo ‘presidenziale’ di Mario Monti, ma l’elettorato non apprezzò. Iniziò la stagione dei populismi, dei forconi e del binomio Casaleggio-Beppe Grillo, sulla cui scia presto si sarebbero buttati anche la Lega di Salvini e, sia pure con maggiore prudenza, i FdI di Giorgia Meloni.
E veniamo al 2020, il Covid che funesta il mondo. I primi focolai dell’Europa si manifestano in Italia, tra Lombardia e Veneto. I camion con le salme portate a cremazione, i pronto soccorso intasati, l’incubo che tutti ricordiamo. L’Italia avrebbe mai potuto arginare l’epidemia e contenerne le conseguenze riducendo la spesa sanitaria? O abbandonando a se stessi le imprese, i commercianti, le campagne? O ancora, evitando di contrastare le nuove povertà con una spesa a quel punto obbligatoriamente assistenziale?
L’Europa, inizialmente diffidente, quando vide arrivare il virus nelle sue contrade, si rese conto che lasciare l’Italia al suo destino avrebbe significato il flagello continentale e diede una straordinaria botta di coesione e di vita. Il patto di Maastricht fu sospeso, la BCE e il FMI comprarono i titoli italiani in misura consistente, la Commissione deliberò aiuti finanziari al nostro Paese, parte in conto capitale, parte a tassi agevolati. È stato grazie all’Europa che l’Italia si è salvata da una crisi devastante, che l’avrebbe portata ai confini di una guerra civile.
Poi la guerra, l’esigenza di sostenere l’Ucraina invasa e di rafforzare i nostri confini con ulteriore spesa pubblica per armamenti. E proroga della sospensione del Trattato di Maastricht. Finché non è arrivato il momento di metterci un punto.
Lo scorso 20 dicembre c’è stata la fumata bianca. Com’è andata all’Italia? Non bene, ma poteva andare peggio. Soprattutto per il Governo italiano.
Il ministro Giorgetti si è battuto con perizia, barcamenandosi tra l’impossibilità di sottrarsi alla richiesta dei Paesi partner di fornire solide garanzie di rientro dal debito e le esigenze elettoralistiche del suo leader di partito, Matteo Salvini, e della stessa Meloni. La quale, per parte sua, non ha certo l’intenzione di lasciare il campo della protesta caciarona antieuropea alla Lega.
Emblematiche due dichiarazioni di Giorgetti. Nella prima ha ricordato come sia problematico per un Paese come l’Italia, col debito pubblico che si ritrova, negoziare ‘alla pari’ con gli altri partner; nella seconda ha confessato di aver fatto di tutto per evitare di sottoscrivere il nuovo Patto prima del voto europeo, chiedendone il rinvio a luglio. Si è anche imboscato per una notte intera, rendendosi irreperibile. Non ce l’ha fatta ed il 20 dicembre ha dovuto firmare.
Il compromesso è stato trovato sulla tempistica. In Italia si voterà per le politiche – salvo imprevisti – nel ‘27 e il nuovo Patto, guarda caso, introduce criteri di flessibilità per i Paesi in difficoltà a valere per il triennio 2025-27. La stessa entrata in vigore del nuovo Patto, prevista per la primavera inoltrata, è verosimile che slitti a luglio, dopo il voto europeo. Dopo il ‘27 saranno davvero lacrime e sangue, ma le elezioni politiche saranno state già consumate.
Al Governo dunque è andata bene, potrà evitare sanguinosi tagli della spesa fino al voto del ‘27. All’Italia non è andata altrettanto bene. In particolare alle sue nuove generazioni che si ritroveranno sul groppone il fardello dell’insostenibile debito a tripla cifra.