I preti nel mondo senza Dio

 

by Luigi Gravagnuolo 15 Dicembre 2023

 

I preti servono ancora? Se sì, qual è oggi il loro ruolo nella società secolarizzata? E se no, non servendo più ed essendo destinati conseguentemente ad essere estromessi dalla storia, come saranno la società e la vita senza preti?

Se n’è parlato lunedì scorso, 11 dicembre, in Curia Diocesana di Cava de’ Tirreni ragionando sul libro di Francesco De RosaBeniamino Depalma e l’inutilità dei preti’ (Ed. Neomediaitalia, Napoli, 2023). Mons. Beniamino Depalma, oggi ritirato presso la casa dei PP. Vincenziani in Napoli, è stato eminente arcivescovo dell’Arcidiocesi Amalfi-Cava de’ Tirreni e di quella di Nola.

Era presente anche lui lunedì scorso, insieme all’autore, a confrontarsi con l’attuale arcivescovo di Amalfi-Cava, mons. Orazio Soricelli, col prof. Armando Lamberti, docente di Diritto costituzionale UNISA, col parroco don Osvaldo Masullo e – si parva licet – con chi qui scrive. Ne sono venuti fuori tanti interrogativi e qualche risposta.

Già in Lc,17-10, Gesù aveva parlato di ‘servi inutili’. Rivolgendosi ai suoi discepoli – lui primo mediatore della Nuova alleanza e loro primi sacerdoti – li ammoniva: “Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: ‘Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”.

La lettura più diffusa di questa pericope è quella etica o, meglio, comportamentale. Gesù richiama i suoi discepoli all’umiltà: non montatevi la testa, non atteggiatevi a chissà cosa.

In sala è stata avanzata un’ulteriore lettura, anch’essa nel recinto dell’insegnamento morale: non aspettatevi ricompense per quello che fate; il sacerdozio in mio nome, è un servizio gratuito, ‘senza utili’ per chi si mette alla mia sequela.

Entrambe le letture sono attinenti ed appropriate. Ce n’è però una terza, che qui azzardiamo e che andrebbe considerata: voi siete i sacerdoti di una ‘fede in-utile’.

Buona parte dell’umanità crede. Non necessariamente nel Dio della Bibbia, magari in un qualche feticcio animistico, o in più Dei, ma è molto raro incontrare esseri umani senza certezze. Senza fede non c’è speranza e senza speranza c’è solo disperazione. L’umanità oggi, specie nell’Occidente, è mendicante di fede o, meglio, di senso. Lo cerca dappertutto, in un’ideologia politica, in un partito, nella patria, molto più spesso nel dio denaro, finanche in una bandiera sportiva o in qualche altro surrogato di fede che possa dare senso all’esistenza. La Chiesa cattolico-romana non è l’unica ‘agenzia’ produttrice di senso, deve misurarsi e competere con altre agenzie, che non necessariamente si presentano come confessioni religiose. In breve: quale che sia l’oggetto della fede, il senso della vita è dato dall’adesione a un’idea che appare certa, ad un obiettivo che sembra raggiungibile.

La forza del ‘desiderio di senso’, la paura della disperazione, sono superiori allo scetticismo. Ci sarebbe dunque lo spazio per intercettare questa domanda; ma nella nostra società la risposta cercata esclude, o quanto meno elude la voce dei sacerdoti. Mendicanti di fede, in numero sempre crescente le persone dell’euroccidente secolarizzato non la trovano nei Vangeli. La Chiesa cattolica – quindi i suoi preti – deve misurarsi con altre fedi, più ancora con la fede nell’inesistenza di Dio, con l’ateismo e col rifiuto di Cristo.

La sfida non si gioca perciò sulla soddisfazione del desiderio di fede, al quale corrispondono molte offerte, bensì sulla verità.

Dio esisterebbe anche se l’uomo non abitasse il pianeta. La sua realtà è una verità ontologica, non funzionale ai bisogni dell’umanità. Il richiamo all’utile, ai vantaggi derivanti dall’adesione a Cristo, non è la risposta alla crisi della fede.

Quando una persona tormentata dal dubbio si rivolge al prete per essere aiutata a rimuoverlo, questi in genere fa leva proprio sul suo ‘bisogno’ di fede: ‘Che senso avrebbe la tua vita senza la fede nella vita eterna? Di fronte alla presenza del male nel mondo ed alla morte, la fede ti sostiene. Senza fede ti resterebbe solo l’angoscia dell’assurdo, l’essere nato con l’unica prospettiva di morire’. Grosso modo queste sono le risposte più frequenti.

Estendendo il raggio della riflessione alla società nel suo insieme, segnatamente a quella euroccidentale, la comune fede in Cristo e nei suoi valori tiene insieme la rete delle relazioni sociali e rende possibile una convivenza tra gli uomini non conflittuale. O quanto meno è utile a contenerne l’innata conflittualità. Senza fede vengono meno i freni inibitori che scoraggiano ciascuno a oltrepassare la soglia dell’eticamente lecito. Senza fede, a bloccare gli istinti omicidi, o comunque violenti, o antisociali, resterebbe solo la repressione, che inevitabilmente si farebbe sempre più invasiva, fino alla perdita delle libertà di tutti. La libertà si regge sull’autocontrollo delle persone. Ci sarà pure una ragione se ‘‘la più grande piattaforma dei diritti (naturali, umani, di cittadinanza) che la storia della civilizzazione umana abbia finora conosciuto e conosca’ – per dirla con Eugenio Mazzarella – si sia avverata nei paesi euroccidentali, là dove le radici religiose sono cristiane. I valori evangelici sono i fondamenti della convivenza democratica. Anche l’etica sociale dei non credenti attinge ad essi. Credenti o non credenti, ‘non possiamo non dirci tutti cristiani’ (B. Croce).

La fede, dunque, quella dei preti della Chiesa cattolico romana, è utile. Utile a riempire di senso la nostra vita ed utile alla nostra convivenza civile. Ma questa utilità rischia di essere anche il tarlo che la corrode. Se credo in Cristo solo perché ciò mi è utile psicologicamente, o perché ritengo utile il suo messaggio sotto il profilo etico, insomma per la convenienza mia personale o sociale, sono già dentro l’agnosticismo e sulla via dell’ateismo. A questo punto i preti davvero non servono, basta la condivisione di un’etica sociale. L’autore del libro, Francesco De Rosa, è efficace quando critica il riduzionismo psicologico e quello etico della fede.

La risposta alla crisi della fede cristiana non sta dunque nel richiamo alla sua funzione pratica. Si crede non perché ci è utile, ma perché l’incarnazione di Dio, la crocifissione del Dio vivente e la sua resurrezione sono vere.

Centinaia di migliaia di uomini, nel corso della storia, sono stati torturati e crocifissi, solo Uno è risorto a testimonianza della realtà di suo Padre e della sua vigile presenza nella storia. È questa ‘verità inutile’ ciò che ci fa credenti. Che poi questa certezza ci trasmetta anche speranza, consolazione, condivisione di valori etici e sociali è la conseguenza, non la fonte della fede. Se confondiamo il bisogno dell’individuo o di quello della società con il fondamento della fede, non usciamo da Feuerbach e da Freud per i quali Dio, Cristo, il Regno dei Cieli sono proiezioni dei nostri desideri, invenzioni di comodo per il nostro utile.

La crisi delle vocazioni, la secolarizzazione della società, lo scetticismo di massa – cui si affianca la credulità più ingenua: ‘Quando gli uomini scelgono di non credere in Dio, quando non credono più in nulla, allora diventano capaci di credere in qualsiasi cosa’ (Gilbert Keith Chesterton) sono dunque l’esito dello smarrimento della verità.

I preti supereranno la loro stessa crisi di identità se aiuteranno l’umanità a superare il relativismo, per il quale non c’è distinzione tra la fede nella verità e una qualsiasi altra convinzione, logica o illogica che sia.

Già, ma come fare per restaurare la verità? La risposta non c’è, né potevano darla i discussant di lunedì scorso. Alcune risposte, magari parziali, sono però venute fuori. Quella per la quale, ad esempio, va ripensato il modello pastorale attuale, a partire dal rapporto tra sacerdozio ministeriale e sacerdozio universale: “La Chiesa è del popolo di Dio non dei preti, segue la legge della reciprocità. Una Chiesa dove vi sono conflitti distrugge il progetto di Dio. Che tutti siano uno perché il mondo creda. Non la Chiesa che celebra i riti ma la Chiesa che ricerca la comunione giorno per giorno” scriveva Mons. Depalma già a fine secolo (‘Per una Chiesa lieta e coraggiosa’, Lettera pastorale di B. Depalma, 25 febbraio 1998).

 

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