da avv. Giovanni Falci
SALERNO – Ho partecipato lo scorso 30 settembre, al convegno organizzato dalla Camera Penale Salernitana, cui mi onoro di appartenere, “Mafia e Appalti”, che si è svolto nell’Aula Magna della Corte di Appello di Salerno.
Dico subito che, purtroppo sono arrivato un po’ in ritardo e non ho potuto seguire tutti gli interventi dei relatori.
Ho ascoltato con interesse quelli dell’avv. Rosanna Natoli, del “mio” Presidente, avv. Luigi Gargiulo, e dell’on.le Chiara Colosimo Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia.
Tranne che per l’intervento dell’avv. Gargiulo, non ho riportato un giudizio favorevole per quello che ho sentito dire dal membro del CSM e dal Presidente della Commissione. Vorrei però premettere che il fatto di criticare, legittimamente, un membro del CSM e il Presidente della Commissione Antimafia, perché ritengo che abbiano usato argomenti in contrasto con principi costituzionali, non vorrei che mi facesse additare come mafioso; bisogna uscire dal rischio di un’antimafia che si fa potere, che diventa inattaccabile e non criticabile, in una logica assolutistica e deprecabile: o sei con me o sei contro di me.
So di proporre una lettura assai scomoda, impopolare e controcorrente: abdicare, con leggi speciali, allo Stato di Diritto per combattere il crimine mafioso significa percorrere una strada pericolosa di matrice fascista e autoritaria, non democratica.
In estrema sintesi è questo il succo della mia critica degli interventi cui mi riferisco.
E’ il rischio del c.d. professionismo dell’antimafia di cui ha parlato, per primo e bene, Leonardo Sciascia fin dagli anni 80.
Ora, io capisco che tali tesi che ho sentito al convegno, possano essere proposte da politici in cerca di consensi, ma da operatori del diritto non sono accettabili.
Gli stessi discorsi, le stesse frasi, anche a effetto, in un comizio in un talk show hanno un senso, hanno una loro posizione “quasi” naturale, anzi, tollerabile (se si dicono cose inesatte non c’è nessun luogo adatto), ma in un Palazzo di Giustizia non dovrebbero trovare cittadinanza.
All’avvocato Gargiulo che portava correttamente il discorso sul pericolo di un giustizialismo fuori dalle regole del giusto processo che governa il procedimento di prevenzione, l’on.le Colosimo ha risposto evocando “avvocati che devono difendere gli innocenti”.
Sono sicuro che si sia trattato di un errore dovuto allo slancio e alla partecipazione emotiva di quel momento del suo intervento perché un’affermazione del genere è vuota di qualsiasi contenuto, logico e giuridico.
Il diritto di difesa è garantito dalla Costituzione a TUTTI gli imputati, innocenti o colpevoli che, per inciso, quando inizia il processo a loro carico, sono per legge, non colpevoli; hanno uno status privilegiato; la tesi della loro innocenza è quella da battere. E poi, se fosse vera l’affermazione dell’on.le Colosimo come la mettiamo con quella voce del bilancio dello Stato che prevede la spesa per il pagamento degli avvocati dei collaboratori di giustizia?
Il “pentito” è il colpevole per antonomasia a cui lo Stato paga il suo difensore.
E, ancora, sempre in un passaggio passionale e impulsivo del suo intervento, l’on.le Colosimo ha detto che “la Mafia va combattuta da parte delle forze dell’Ordine, dei Magistrati, dei politici e anche degli avvocati”; si è dimenticata una, anzi, la componente principale che non ha nominato: IL POPOLO.
La Mafia va combattuta con le Leggi che sono fatte dal popolo (Articolo 1 della Costituzione: (…). La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione).
La sovranità popolare è la premessa fondamentale del governo che tutto il potere, in particolare il potere legislativo, riposa nella volontà del popolo.
E allora, quando andiamo a toccare non più gli slogan di propaganda, ma il rispetto delle leggi che ci differenzia dai mafiosi, allora il discorso si fa serio e tecnico.
L’avv. Rosanna Natoli e l’on.le Chiara Colosimo, ma mi è sembrato di capire anche il Procuratore Borrelli, hanno tutti esaltato e evocato le misure di prevenzione come strumento efficace di lotta alla Mafia.
E su questo siamo tutti d’accordo!
Anche Luigi Gargiulo nel suo intervento ne ha parlato.
Il problema è che quello delle misure di prevenzione è un argomento molto delicato perché, dietro all’istituto giuridico si cela il rischio d’introduzione di procedure d’indagine e procedure processuali speciali, con la concreta possibilità che, in nome della lotta alla mafia, si può agire con eccessiva discrezionalità e che di conseguenza si possono commettere ingiustizie.
Le misure di prevenzione non hanno posto nella Costituzione, non sono soggette alla “obbligatorietà” com’è invece per l’azione penale.
Il caso di Pietro Cavallotti sub iudice innanzi alla CEDU, di cui ci ha parlato l’avv. Gargiulo è emblematico di questo rischio che va affrontato e risolto.
La confisca è una sanzione che è afflittiva come una vera e propria pena che si applica nel processo penale.
La strada da percorrere è una ridefinizione in via interpretativa – ove possibile – degli standards probatori dei procedimenti di prevenzione.
Si confisca quasi l’intero patrimonio a una persona sostanzialmente incensurata.
Sulla base di denunce a volte culminate in rinvii a giudizio chiusi con pronunce di prescrizione o di improcedibilità dell’azione penale.
Su queste basi le persone pericolose in Italia si conterebbero nell’ordine di centinaia di migliaia.
Poiché, a quanto pare, nel nostro Paese l’evasione è un fenomeno di massa, le misure di prevenzione nella forma della confisca dei beni potrebbero diventare l’arma letale nella lotta all’evasione, il che sul piano della coerenza e ragionevolezza non farebbe una piega.
C’è da chiedersi, però, se non si ridurrebbe, oltre l’evasione fiscale, anche il livello di civiltà giuridica.
La difficoltà è che il procedimento di prevenzione è regolato dal c.d. codice antimafia che è assai “parco” nel dettare la disciplina dell’assunzione delle prove.
Soprattutto quel codice non prevede nulla in tema di valutazione delle prove.
Il rischio è, perciò, di avere un processo senza giurisdizione.
Cioè un rito pieno di forme e vuoto di sostanza perché senza tutela effettiva dei diritti. Se non si tipizzano le fattispecie di pericolosità, si disarma la difesa perché si svuota il contraddittorio.
Se non si stabilisce lo standard probatorio – cioè il quantum di prova necessario per accertare la pericolosità sociale del soggetto – la difesa è automaticamente messa nell’angolo.
Invero, più basso è lo standard probatorio, più facile è la prova per l’accusa e più facile è per il giudice dichiarare raggiunta la prova della pericolosità.
Nel procedimento di prevenzione la qualità della legge – come ci ammonisce la Corte Edu – è scadente e lo standard probatorio è minimo.
Ecco perché piace ai giustizialisti, perché è una scorciatoia probatoria.
Ho sentito l’avv. Natoli parlare di “doppio binario” anche ieri dopo gli approdi della Cassazione che ha stabilito che “quando il fatto delittuoso riferito al proposto, sia coperto da giudicato di assoluzione, il Giudice della prevenzione non potrà ritenere in via autonoma – per effetto del c.d. doppio binario appunto – la rilevanza di quel fatto la cui antigiuridicità sia stata esclusa in sede di accertamento penale”.
Sfrangiando le fattispecie di pericolosità sociale e abbassando gli standard probatori si aggira – con astuzia giuridica – il divieto del bis in idem.
L’avv. Natoli ha in sostanza detto che se nel processo di cognizione non riesco a provare il reato perché la tipicità penale e lo standard dell’oltre il ragionevole dubbio sono mete troppo ambiziose da raggiungere, ecco che lo stesso materiale probatorio – inidoneo per la condanna per reato – mi diventa idoneo per la condanna di prevenzione.
Il rischio è che il procedimento di prevenzione sia il “procedimento di riserva” del processo di cognizione.
Il rischio è che la misura di prevenzione sia una pena senza reato e senza prova. Il tema meriterebbe un approfondimento maggiore che non può essere fatto in questa sede; bisognerebbe, cioè, chiederci se le misure di prevenzione siano uno strumento del futuro o uno strumento del passato; bisognerebbe interrogarci se la giurisdizionalizzazione del procedimento di prevenzione sia stata una conquista effimera; se c’è possibilità, anzi necessità di una diversa interpretazione delle norme di prevenzione con una incisiva visione della Corte Edu; e altro ancora.
Per ora mi resta che concludere condividendo una frase molto incisiva di Leonardo Sciascia: la “vera antimafia è un acquedotto in più, anche a costo di un convegno in meno”