da Angelo Giubileo
(avvocato – scrittore)
Alla veneranda età di 98 anni, Henry Kissinger è tornato, ma forse è meglio dire che non ha mai smesso di scrivere sugli interessi che hanno caratterizzato la sua lunghissima e altrettanto prospera carriera di politico e diplomatico statunitense. A riprova che le sue opinioni si rivelano ancora preziose, all’età di un secolo, meno di un mese fa, Kissinger è ricomparso ancora sulla scena politica internazionale, con gli onori che si riservano a un capo di stato o di governo, ricevuto dal leader cinese Xi Jinping, il quale ha sinteticamente dichiarato: “Gli Stati Uniti hanno bisogno della sua saggezza”.
Uscito in italiano l’anno scorso per la Mondadori, Leadership – Sei lezioni di strategia globale è un saggio che illustra le diverse strategie di governo poste in essere nell’ultimo secolo, e in rapida successione, da leader quali Konrad Adenauer, Charles de Gaulle, Richard Nixon, Anwar Sadat, Lean Kuan Yew e Margaret Thatcher.
Kissinger evidenzia così il ruolo, ritenuto necessario ed essenziale, di un leader affermato e riconosciuto in un mondo attuale privo di “una visione morale e strategica”, sottolineando come già il filosofo stoico Epitteto scrivesse che “non sono le cose a turbare gli uomini, ma i giudizi sulle cose”. E allora la questione principale per Kissinger è la necessità, più che opportunità, di ristabilire un ordine dal caos che caratterizzerebbe l’epoca presente.
In uno dei suoi saggi precedenti, apparso in Italia nel 2015 con il titolo Ordine mondiale, Kissinger s’interrogava allora su tre “aspetti”: 1) la natura dello Stato; 2) il contrasto reale tra l’organizzazione politica ed economica del mondo; 3) l’assenza di un efficace meccanismo per la consultazione tra le grandi potenze e una loro eventuale cooperazione sulle questioni più importanti. In particolare, Kissinger scriveva allora che: “L’Europa si è proposta di trascendere lo Stato e di costruire una politica estera basata principalmente sul soft power e sui valori umanitari”. Obiettivo evidentemente fallito!
A distanza di quasi un decennio, i fait accompli della storia hanno dimostrato, pur sempre, che l’ordine è piuttosto frutto di un “equilibrio” che occorre ricercare continuamente, e il centenario Kissinger non esita egli stesso a evidenziarlo. Finita l’epoca delle religioni e dei governi aristocratici ereditari, la tecnologia ha preso il sopravvento sui suoi stessi inventori: “Gli artefici di Internet avevano concepito la loro invenzione come un mezzo ingegnoso per connettere il mondo; in realtà ne è derivato anche un modo nuovo (n.d.r.: un nuovo mondo pagano, come direbbe il mio amico Campa!) per dividere l’umanità in tribù che si fanno la guerra”.
Logicamente, uno stoico come Kissinger non sopporta l’idea che il mondo trovi da sé un suo equilibrio naturale, ma è consapevole che ciò che occorre è un “equilibrio”, e a quanto è emerso ed emerge, non di una ma di due corde che muovono in direzione contraria: “Ciascuna delle parti si concepisce come eccezionale, ma in maniera diversa. Gli Stati Uniti agiscono sulla base della premessa che i loro valori siano universalmente applicabili e che alla fine verranno adottati dappertutto. La Cina si aspetta che l’unicità della propria cultura e le impressionanti prestazioni economiche inducano gli altri paesi a mostrare deferenza verso le sue priorità. Lo slancio missionario degli Stati Uniti e il senso di superiorità culturale della Cina implicano entrambi una sorta di subordinazione di una nazione all’altra”.
Ed è al termine di questa annotazione che, a me pare, il ruolo di ciò che ancora oggi chiamiamo “nazione” ritorna centrale e indispensabile, dopo alcuni decenni, in particolare qui da noi in Europa, di vuote parole e false illusioni. A tale proposito, Kissinger non dimentica affatto, anzi condivide appieno le parole della Thatcher: “Cercare di sopprimere la nazionalità e concentrare il potere al cuore di un conglomerato europeo sarebbe altamente dannoso e metterebbe a rischio gli obiettivi che cerchiamo di raggiungere (…) E’ ironico vedere che proprio quando paesi quali l’Unione Sovietica, che ha cercato di dirigere tutto dal centro, si stanno rendendo conto che il successo dipende dal decentramento del potere politico ed economico, qui vi siano alcuni, nella Comunità, che sembrano muoversi nella direzione opposta”.