Aldo Bianchini
SALERNO – La statua della Libertà (in inglese Statue of Liberty, in francese Statue de la Liberté), il cui nome completo è la Libertà che illumina il mondo (in inglese Liberty Enlightening the World, in francese La Liberté éclairant le monde), inaugurata nel 1886, è un simbolo di New York e degli interi Stati Uniti d’America, uno dei monumenti più importanti e conosciuti al mondo. È situata all’entrata del porto sul fiume Hudson al centro della baia di Manhattan, sulla rocciosa Liberty Island. Dono della Francia al popolo degli Stati Uniti, fu realizzata dal francese Frédéric-Auguste Bartholdi, con la collaborazione di Gustave Eiffel, che ne progettò la struttura reticolare interna in acciaio, collegata all’esterno con il rivestimento in fogli di rame sagomati e rivettati. Raffigura una personificazione della Libertà, drappeggiata con una lunga toga, nell’atto di elevare fieramente una fiaccola al cielo, mentre con l’altra mano tiene una tavola recante la data della dichiarazione di indipendenza degli USA del 4 luglio 1776.
La statua, ovvero i pezzi che la componevano, proveniente dalla Francia approdò nella baia di New York il 19 giugno del 1885, esattamente 138 anni fa.
Nelle intenzioni dei francesi (ideatori – produttori e costruttori) la statua doveva simboleggiare la libertà e l’indipendenza conquistate un centinaio di anni prima con la famosa dichiarazione prima ricordata e, soprattutto, dopo la sanguinosa guerra di secessione tra nord e sud (1861 – 1865) che stabilizzò definitivamente la crescita della neo democrazia americana; un monumento visto ed ammirato da milioni di migranti che dalle zone povere dell’Europa partirono verso il “sogno dorato” di una nazione che garantiva, almeno in partenza, parità di occasioni per cambiare in meglio il proprio tenore di vita.
Ma il monumento, che con i suoi imponenti 93 metri di altezza, illumina davvero tutta la baia di New York e conseguentemente il mondo intero di libertà e di indipendenza ?
Personalmente non o rispondere; posso soltanto raccontare l’esperienza vissuta di miei nonni paterni emigrati negli USA pochi anni prima della “grande guerra”:
“”Mia nonna Brigida Barbieri, giovanissima sposa, insieme al marito, mio nonno, Felice Bianchini emigrò verso gli Stati Uniti d’America nel dicembre del 1913. Era la mattina del 23 dicembre di centodieci anni fa quando i due giovanissimi coniugi Bianchini-Barbieri si imbarcarono sulla nave da Napoli verso New York (che allora non era ancora conosciuta come la “grande mela” ma come la terra promessa per i tanti contadini lucani, co9me del resto lo erano i miei nonni). Quella fu una vera e propria “apocalisse sociale”; l’emigrazione è uno dei capitoli più dolorosi della storia lucana. Il periodico d’intonazione democratico-socialista «L’Operaio», fondato a Lagonegro per sensibilizzare l’opinione pubblica contro lo sfruttamento dei lavoratori, già nel 1884, con toni deamicisiani, la descriveva come un’apocalisse sociale, mettendo in dubbio, tuttavia, come altri avrebbero fatto in futuro, che tutto fosse effetto di un vero bisogno e non, invece, del cosiddetto miraggio dell’altrove che spingeva masse di persone a lasciare gli affranti luoghi di origine attratti da presunti mondi di ricchezza. Ricordo che agli inizi degli anni ’50 mia nonna Brigida, da me adorata, mi raccontava spesso della prima visione, quasi da spettacolo lunare, di New York dai ponti della navicella con la quale aveva solcato l’Atlantico. Mi descriveva le fasi dell’attracco e quelle della discesa a terra ma poi il suo racconto si interrompeva come se avesse qualcosa da nascondere. Ogni tanto le dicevo di raccontarmi l’America ed era sempre lo stesso, si interrompeva sempre lì. Poi un giorno, finalmente, andò oltre e mi disse tra le lacrime cosa aveva provato e cosa aveva dovuto sopportare in quel capannone industriale dove era strada rinchiusa appena messo piede a terra insieme al giovane marito e ad altri muresi. <<Caro Aldo –mi disse- ci fecero entrare in un capannone freddo ed umido insieme ad un centinaio di altre persone che non conoscevamo e lì rimanemmo in quarantena per diverse settimane. Ogni tanto ci passavano del cibo e l’acqua in abbondanza. La cosa più brutta la dovetti subire e sopportare qualche giorno dopo il nostro arrivo in America. Nel capannone arrivarono diverse soggetti che sembravano dei soldati con tanto di elmetto ed armati. Ci costrinsero a spogliarci tutti e con della pompe ci spruzzavano addosso della polvere bianca. Nudi e tutti imbiancati dovemmo rimanere per diverse ore; io volevo morire per la vergogna, non mi ero mai spogliata in pubblico ma tuo nonno fu così comprensivo che mi tenne stretta abbracciata a lui. Eravamo sposati da pochi mesi e quello era il nostro viaggio di nozze oltre che della speranza. Verso sera uno per volta, sempre nudi, ci fecero passare in un lungo corridoio che spruzzava acqua calda da tutte le parti; io e mio marito Felice ci lavammo per bene e poi ci diedero delle tute tutte uguali che dovemmo indossare senza avere la possibilità di asciugare i nostri corpi che, di fatto, si asciugarono dentro quelle tute che forse erano state già utilizzate in precedenza da altri. Poi ci fecero andare in un altro capannone dove, per gruppi, incominciammo a trovare le nostre valigie e finalmente ci sentimmo un po’ tutti più rilassati. Dopo circa quaranta giorni potemmo, finalmente, uscire liberi fuori di quel ghetto per abbracciare i nostri cari che ci aspettavano in America>>.
Quella era la libertà e l’indipendenza sognata dagli ideatori della Statua della Libertà ?