VITA DI LAGER

 

 

Dr. Matteo Claudio Zarrella

(già presidente del Tribunale di Lagonegro)

 

Si vive di fame. Questo il messaggio che un prigioniero manda oltre il reticolato ai posteri increduli. La fame non si descrive, si soffre. Guareschi ci dice: quando si mangiava qualcosa, si pensava alla fame del giorno dopo. Ogni giorno, una fame nuova. Il rancio è sotto le 1.000 calorie, poco per tenersi in vita, troppo per morire, diceva un prigioniero che teneva nel suo diario segreto la contabilità delle calorie. I prigionieri vagavano nel lager come spettri viventi, intirizziti dal freddo, con addosso le coperte o i pastrani sottratti ai cadaveri dei russi. In ogni camerata erano divisi in gruppi e per ciascun gruppo era designato Il “mestolatore”, addetto alla distribuzione del rancio dopo che una squadra di servizio aveva provveduto a prelevare dalla cucina il mastello contenente la sbobba del giorno. Seguiamo la scena. Gli ufficiali prigionieri, ciascuno con la sua gavetta, si portavano davanti al mestolatore, a ritirare la sbobba. Il mestolatore si serviva di una specie di mestolo, ricavato da qualche scatoletta vuota. Con il mestolo vibrava un deciso colpo alla sbobba per darle uniforme densità. Poi versava con il mestolo in ogni gavetta la porzione di sbobba, non senza contestazioni sulla diversa qualità delle porzioni. Si distribuivano le patate e si litigava sulla grandezza delle patate. Si distribuivano le razioni di pane e le discussioni si facevano ancora più accese. Il “misuratore” nel taglio, per essere preciso ed imparziale, doveva fare uso di righe, di squadre, di lamette da barba e di rudimentali bilancine di legno. Eppure continuavano i litigi, perché v’era troppa mollica o troppo poca. Si dovevano misurare pure le briciole. Non possiamo immaginare Albino litigare per un mestolo di brodaglia, per una mollica di pane. Per integrare il fabbisogno di calorie e addomesticare la fame i prigionieri facevano di tutto: raschiare le briciole di patate attaccate alla buccia e divorare le bucce, frugare nelle immondizie alla ricerca di qualsiasi cosa da masticare, raccattare resti di verdure fra i rifiuti, succhiare dai mastelli del rancio vischiosi avanzi di sbobba, umiliarsi a mendicare pane da chiunque ne potesse avere in eccesso, per aver barattato un orologio, un anello, una catenina d’oro in cambio di una pagnotta. Non mancavano i furti di pane e di indumenti. Il derubato diffidava dei compagni di camerata. Accuse, liti, baruffe e alterchi violenti. Poteva subentrare, alla solidarietà tra sventurati di una sorte comune, una tendenza dei prigionieri all’isolamento in un risentito egoismo.

Il cielo di volta nel lager mandava una luce del giorno razionata e senza sole. Il freddo era insopportabile, in baracca dove filtrava da buche e fessure e all’aperto nelle interminabili adunate. Per spronare gli ufficiali internati all’adesione alla Repubblica di Mussolini gli oratori della propaganda promettevano il rimpatrio e, ancor prima, miglioramenti immediati delle condizioni di vita, dando possibilità di alloggio ai nuovi “optanti” in capannoni riscaldati e ben arredati dove poter consumare prelibatezze dimenticate: pane bianco, uova, bistecche, pasta, risotti, frutta e bevande di vino. Per convincere gli internati, veniva diffusa dall’oratore di turno la lettera dell’ambasciatore Anfuso. Si parlava della ripresa dell’onore dell’Italia, del riscatto dall’onta del tradimento badogliano. Il propagandista diceva, a commento della lettera dell’ambasciatore, che il governo repubblicano fascista voleva assecondare il desiderio di ritorno in Patria degli ufficiali prigionieri riservando ad essi lo stesso trattamento economico conferito all’ufficiale tedesco. Diceva che i non aderenti sarebbero stati abbandonati al loro destino, al rigore inesorabile della fame e del gelo invernale. In quelle adunate si dava pubblica lettura dell’accorata lettera di una madre che supplicava il figlio internato a firmare l’adesione e a tornare a casa. La lettera faceva presa sulla sensibilità dei prigionieri più della lettera dell’ambasciatore e dei tanti discorsi della propaganda. Quella madre scriveva: Ho ottant’anni, sono sola al mondo, non ho che te. Ti scongiuro, ti prego in ginocchio di tornare, di firmare qualsiasi cosa, ma di tornare. È tua madre che ti prega, è tua madre che ha diritto di rivederti prima di morire. Adesso non mi potrai dire che ci sono ancora dei doveri con tutta la confusione che è nata. Ho saputo che il Marino è rientrato. Quella lettera poteva anche esser falsa, scritta ad arte dalla propaganda. La Storia può sempre stare in bilico tra verità e finzione. Ma vera o falsa che fosse quella lettera parlava a nome di tante mamme ed ogni prigioniero riconosceva, in quella madre, la sua. Quanti prigionieri lacrimavano a quelle parole. Come si lacrimava a sentire nel cuore la canzone “Mamma”, diffusa proprio in quegli anni. Parole che commuovevano fino alle lacrime il sottotenente Carbone che pensava alla sua mamma, detta familiarmente mammà. Albino sognava che la sua casa fosse rimasta ferma, uguale a come l’aveva lasciata, ad aspettarlo. Ma anche allora Albino confermava il suo No! alle profferte nazi-fasciste, resistendo alle sirene della nostalgia di casa. La prova più dura della sua Resistenza. Casa Carbone non riceveva notizie di Albino che figurava, ogni giorno di più, tra i dispersi. All’anagrafe di Lapio si attendeva solo un certificato per annoverarlo tra i caduti in guerra, morto per servire la Patria.

 

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *