Aldo Bianchini
SALERNO – La domanda, anche se retorica, è sempre la stessa: “Dove finisce la responsabilità politica e quando inizia quella dei dirigenti ?”.
Ma è, ovviamente, è una domanda tutta italiana, Nazione in cui in nessun ambito i confini sono certi e chiari, e tali da non lasciare spazio alla libera interpretazione dei magistrati, dei giornalisti, dei politici, delle istituzioni nazionali e locali e della gente comune.
Naturalmente se tutto questo si applica alle gare di appalto per lavori pubblici va da se che questi ipotetici confini diventano ancor più fumosi e sfumati, tanto da costringere anche i magistrati, che molti anni fa potevano affondare il coltello nel miele della politica (fino al 1998 firmavano soltanto i politici, quando i dirigenti avevano soltanto diritto a parere consultivo), a brancolare nell’incertezza assoluta di chi colpire; un’incertezza che porta molto spesso a risultati inutili se non proprio vergognosi in quanto si va a colpire il soggetto più debole della catena decisionale che spesso è costretto ad ubbidire ciecamente per poter sopravvive, ed anche per poter continuare a godere di tutti i benefici economici connessi alla carica di dirigente.
Il ragionamento si può, in forza di quel confine mai certo, ribaltare e addebitarlo anche soltanto ai dirigenti che forti del loro potere vendono la propria firma per raggiungere obiettivi ben precisi.
Anni fa mi raccontava un amico assessore provinciale che lui, proveniente da fuori Salerno e da outsider, non avendo precisi e specifici addentellati nel palazzo era costretto a patteggiare determina dopo determina con i dirigenti pur di realizzare almeno qualcosa del suo programma.
Insomma, ci troviamo di fronte ad un sistema di potere politico-dirigenziale che è diventato molto più impenetrabile di prima grazie alla famigerata legge sulla responsabilità dei dirigenti voluta dal governo D’Alema per garantire alla politica una certa immunità rispetto alle incursioni (anche queste fatte per esercitare un potere profondo) della magistratura.
Se tutto questo viene applicato al sistema di potere politico deluchiano ogni interpretazione è possibile e ritorna di prima importanza la domanda iniziale: “Dove finisce la responsabilità politica e quando inizia quella dei dirigenti ?”, soprattutto in tema di gare d’appalto per lavori pubblici.
E’ un muro di gomma che tutto respinge al mittente; lo stimo vedendo per l’inchiesta sulle Coop Sociali e la storia si ripete per i singoli lavori pubblici, come quello dell’appalto per le Luci d’Artista 21-22.
Ho letto, con attenzione, sia le dichiarazioni del dirigente comunale Gabriele Pennimpede (difeso dagli avvocati Cecchino Cacciatore e Luigi Bove) e del titolare dell’Art Lux Arturo Blasi (difeso dall’avvocato Rosato), e nelle stesse dichiarazioni (pubblicate da Il Mattino) non ho intravisto nessuna novità rispetto a tutte le considerazioni, di carattere generale, prima esposte.
Anche se va chiarito con forza che se dovesse essere vero che “… l’imprenditore, già a conoscenza del buon esito della gara e prima che venisse concluso l’iter (questo sempre secondo l’ipotesi accusatoria), avrebbe siglato intese con imprese fornitrici di materiali le quali si sarebbero anche prestate a figurare, solo formalmente, tra i soggetti partecipanti allo stesso bando di gara …” (fonte Il Mattino), questo non ci vieta di pensare che Pennimpede “poteva tranquillamente non sapere” cosa accadeva alle sue spalle e che la correità possa esistere, invece, tra l’imprenditore e la politica, ovvero del tutto inesistente.
Ovviamente ci sono dei precedenti, per pregresse gare di appalto, che ci inducono a dei sospetti e che del resto sono già state setacciate senza risultati apparenti dai due pm Cosentino e Valenti che oggi sono titolari di quest’ultima inchiesta.
Alla prossima.