Aldo Bianchini
SALERNO – Prima di arrivare al 7 febbraio 1993 con un’altra clamorosa notizia, è giusto ricordare a tutti che si era giunti agli anni orribili del 1992 e 1993 sulla base di un progetto socialista che delineò il “Modello Salerno” e che sembrava essere esaustivo per tutti i gusti e colori politici dentro il quale tutti, o quasi, venivano accontentati sulla base di scelte tecniche molto equilibrate e sostanzialmente in linea con il “principio di merito” che all’epoca rappresentò un’assoluta novità che gli elettori premiarono nelle ormai famose elezioni amministrative con il 33% il Partito Socialista Italiano di Carmelo Conte.
Ma cos’era il “Modello Salerno” ? Esso, storicamente, nacque verso la metà degli anni ottanta dalla fervente attività progettuale di un manipolo di tecnici ed urbanisti chiamati a raccolta intorno all’idea, tutta laica e di sinistra, di rilanciare sul piano nazionale ed internazionale la città di Salerno (e l’intera provincia) che fino a quel momento non aveva potuto o non aveva saputo esprimersi al meglio sul piano commerciale, turistico ed industriale.
Era il momento delle grandi scelte strategiche per la necessaria pianificazione della destinazione urbanistica da dare non solo al centro urbano ma a tutto l’hinterland provinciale per spingerlo verso il sogno della famosa, e per certi versi famigerata, area metropolitana che potesse soltanto riequilibrare, e mai contrastare, il dislivello esistente e non facilmente colmabile con la più grossa e popolosa area metropolitana di Napoli.
Un antico sogno, quello dei salernitani; un sogno che rispunta con il laboratorio laico e di sinistra che, grazie alle felici intuizioni di Carmelo Conte, novello leader salernitano, balza in poco tempo agli onori delle cronache nazionali.
Seguì una stagione progettuale senza precedenti che coinvolse geometri, ingegneri, architetti, urbanisti di fama locale e nazionale; dal 1987 al 1991 vengono incaricati ed impegnati progettualmente circa 240 personaggi tra i quali, solo per ricordarne alcuni: Mario e Vincenzo Adinolfi, Luigi Adriani, Franco Amatucci, Alberto Barbagallo, Giancarlo Barbaro, Silvana Genoveffa Buffo, Gennaro Calabritto, Augusto Cannella, Vincenzo Capaldo, Giovanni Carpentieri, Annibale Casilli, Bruno Centola, Alfonso Coppola, Ennio Cocca, Alberto Cuomo, Ciro Cuozzo, Gennaro D’Alessio, Mario Dell’Acqua, Ercole Di Filippo, Raffaele Di Giuda, Angelo Di Rosario, Gaetano Donadio, Emilio Fortunato, Raffaele Galdi, Anna Gallo, Carmine Gambardella, Nicola Massimo Gentile, Antonio Giannattasio, Giovanni Giannattasio, Roberto Giannotti, Vincenzo Iannizzaro, Domenico Immediata, Rosario Lambiase, Sergio La Mura, Vincenzo Lanzotti, Gianluigi La Rocchia, Giorgio Cesare Lucchese, Alessandro Macchi, Salvatore Marano (detto Savì), Vincenzo Marone, Antonio Marra, Cosmo Mastandrea, Paolo Mazzucca, Carlo Mustacchi, Francesco Ottobrino, Marco Petillo, Enrico Petti, Alfredo Plachesi, Ciro Quazzo, Vincenzo Ranieri, Ernesto Ricciardi, Guido Roma, Paolo Santoro, Giancarlo Schiavone, Aniello Sessa, Carmine Spirito (detto Nuccio), Giuseppe Tolve, Ciro Venturelli, Mario Villani, Armando Zambrano e Virgilio Zinno.
Nessuno, però, aveva fatto i conti con la “delibera 71” approvata nel corso dell’anno 1989 dall’Amministrazione laica e di sinistra, con sindaco Vincenzo Giordano, che governava la città capoluogo. La delibera consiliare di fatto bloccava all’istante il dilagare della speculazione edilizia che da troppi anni e senza alcun controllo stava devastando il territorio con una colata di cemento che non trovava precedenti nella pur millenaria storia di Salerno.
Ma il blocco edilizio e la fissazione degli standard urbanistici cozzava, inevitabilmente, con i corposi interessi economici delle cosiddette “grandi famiglie salernitane” che non volevano sottomettersi ad un progetto politico troppo laico che non ammetteva condizionamenti o compromessi di sorta. Insomma i grandi investitori privati si trovarono di fronte all’ineluttabilità di un progetto che non potevano contrastare e neppure contribuire a realizzare; dovevano, cioè, soltanto investire o affogare.
Forse proprio in questo passaggio non secondario si annidava l’unico grande e irreparabile errore dell’idea progettuale del leader socialista Carmelo Conte che esercitava a tutto tondo un potere politico assoluto.