da Alfonso Malangone
(Ali per la Città)
Le considerazioni espresse nei precedenti commenti lasciano ben poco spazio a dubbi o fraintendimenti: il ritardo del Cilento è la conseguenza storica, sociale e culturale di una colpevole gestione della delicata fase di passaggio da un sistema chiuso, forse ancora feudale, alle ‘libertà’ del nuovo ordine degli anni ’70. Con la fine dell’isolamento, infatti, tutti gli ‘equilibrati squilibri’ di una rispettosa convivenza tra molti bisognosi e pochi privilegiati furono sostituiti da rapporti di apparente parità, ma crudelmente sbilanciati, che imponevano alle componenti più deboli comportamenti estranei alle loro mentalità consolidate. Nell’isolamento, c’erano state libertà che nella libertà divennero isolamento. Una vita da prigionieri, ‘dura ma tranquilla’, anche rassegnata, si trasformò in una ‘agitata’ esistenza fatta di sfide quotidiane con menti forestiere ‘più smaliziate’ o più spregiudicate, sicuramente meno ‘ingenue’. Così, chi ‘poco aveva e poco poteva’ divenne vittima di imbonitori e speculatori pronti a trasformare le sfortune altrui in fortune proprie. Doveva essere compito dei portatori del ‘rinnovamento’ accompagnare la nuova stagione con progetti di aggregazione e di compartecipazione volti a favorire una formazione adeguata alle nuove esigenze, ma le cose andarono diversamente. La ‘scoperta’ delle Cooperative fu un espediente per risolvere i problemi di chi le organizzava, piuttosto che per creare utilità a favore degli altri partecipanti. Un mare di fondi statali fu gestito da alcuni per fare infrastrutture produttive che, come cattedrali nel deserto, dimostrano ancora oggi la velleità e l’inutilità dei progetti. Se non peggio. In giro, ci sono opere di cui non si conosce la finalità e aree PIP artigianali che non vengono usate neppure per giocare al calcio, visto che di bimbi ce ne sono davvero pochi. Molti, infine, furono vittime delle loro stesse volontà di mettersi in gioco da soli, di ‘inventarsi un mestiere’. Per non restare schiacciati dalla nuova libertà, furono schiacciati dalle cambiali, dalle Banche e, ancor più, da coloro che i soldi li prestavano alle “loro” condizioni. In sostanza, il Cilento divenne territorio di scorribande, una riserva di caccia economica e sociale per venditori di fumo che si appropriarono delle certezze del presente in cambio della promessa di un futuro. E, purtroppo, dopo almeno quarant’anni, rapporti della specie ancora stanno soggiogando molti Cilentani che, soprattutto nelle aree interne abbandonate dagli uomini, ma pure benedette da una volontà Superiore, vivono nell’eterna attesa di una sistemazione, magari pubblica, o di una patria promessa. Sono situazioni, forse ‘perverse’, difficili da capire, perché è difficile comprendere chi vive da vittima e da carnefice di sé stesso.
Il Cilento sembra aver smarrito vocazione, identità e umanità. Si dovrebbe cambiare, velocemente, ma non è facile porre rimedio ai guasti di decenni e decenni di errata progettazione e di cattiva gestione da parte di chi, forse senza molta perspicacia, ma certamente con grande vantaggio personale, si inventò improbabili ‘rivoluzioni’ industriali e commerciali in un territorio privo di qualsiasi favorevole predisposizione in tal senso.
Ma, non tutto è perduto. Che sia possibile ripartire, lo dimostrano i risultai di altre aree nelle quali interventi di grande coerenza e compatibilità hanno stravolto, in positivo, contesti territoriali con le stesse debolezze e con popolazioni egualmente distribuite in villaggi minimi dispersi nel tempo e nello spazio. Grandi trasformazioni sono state realizzate in Trentino, ad esempio, e nelle fredde lande della Scozia proprio grazie al semplice ‘utilizzo intelligente’ delle diversità trasformate in grandi attrattori. In Scozia, hanno usato il ‘mostro di un lago’ e anche il golf, sport di lusso, realizzando campi dentro le Città con residenze e dimore esclusive. Bene, il Cilento non ha niente di meno di questi luoghi. Anzi, ha di più. Alle concorrenziali ricchezze territoriali, aggiunge il clima, il sole, le spiagge, la ruralità, le memorie dei luoghi dove è nata la ‘civiltà mediterranea’ e si è imposta una ‘dieta alimentare’ che tutto il mondo invidia. Così, abbandonando i ‘venditori di intrugli e di pozioni magiche’, il Cilento deve imparare da subito a investire ‘su sé stesso’, a riconoscere fiducia fino a prova contraria ai tanti giovani professionalizzati che sono davvero gli unici in grado di esaltare i vantaggi della tecnologia applicata all’ambiente, alle tradizioni e alle manifestazioni del talento locale. La verità è che questo territorio è ridotto così perché nessuno ha dato e molti hanno preso, per personale profitto.
Sul possibile contributo degli Enti Locali, c’è poco da dire. A parte la costa, con i tre centri maggiori di Agropoli, Castellabate e Sapri, e la fascia centrale con Vallo della Lucania, la gran parte dei Comuni interni non arriva ai mille abitanti che, combattendo per la sussistenza, sono ‘ingabbiati’ in contrasti campanilistici incredibili accentuati dagli insuccessi di tanti progetti miseramente falliti. Certo, ci sono state, e ci sono, valide eccezioni. Ma solo eccezioni.
Ci potrebbe pensare il Parco, avviato trent’anni fa con molte speranze. Tuttavia, una costruzione da ‘grande carrozzone’, frutto evidente di una generale diffidenza tra parti politiche e sociali, gli ha riservato funzioni amministrative di conservazione e di controllo del territorio, in parte anche esterno al Cilento geo-storico. Di fatto, il principale ostacolo ad una più dinamica presenza è costituito proprio dalle modalità di funzionamento dei suoi Organi, cioè: Presidente, Consiglio Direttivo, Giunta Esecutiva e Comunità, ai quali sono attribuiti poteri talmente incrociati che appare difficile distinguere ‘chi debba fare cosa’ e ‘chi debba controllare cosa’. Una struttura costruita con il bilancino, per frenare eccessi, invidie e gelosie, non è proprio la più adatta per affrontare situazioni critiche. Così, alla faccia di chi spera ancora, il Parco pensa solo a sostenere sé stesso. Per costruire le proprie sedi, tra cui l’ambizioso Centro della Biodiversità, oggi di utilizzo incerto, completato dopo nove anni al costo di ben 9milioni di euro, e per qualche altro investimento, ha fatto debiti incredibili causando una situazione finanziaria ‘fallimentare’ se si guarda agli impegni di spesa, i residui passivi, che sommano per la cifra astronomica di € 23,1nilioni a fronte degli incassi sospesi, i residui attivi, pari a € 9,6m.. Ma, lo sanno, al Parco, in che condizioni sono? Oltre il 96% delle Entrate correnti è rappresentato da Contributi Statali, cioè € 4,4milioni su € 4,6m., e più del 70% è speso per stipendi e oneri vari, salvo errore (fonte: Revisori 2021).
Certo, qualcuno parla anche di progetti realizzati. Però, sarebbe interessante sapere qualcosa del “QualiParco”, degli allevamenti ovini/caprini, della famosa ‘Ospitalità da Favola’, dell’imprenditorialità rurale, dei percorsi paesaggistici, della “Carta del Parco”. E, basta qui.
Né si hanno notizie dei Forum sul turismo. Il primo, nell’Aprile 2018, con la partecipazione di oltre 100 convenuti, divenne uno “sfogatoio” per denunciare i ‘lampioni rotti’ o le ‘buche sulle strade’ (fonte: 105tv).
Eppure, il Parco ha gli strumenti e le previsioni Statutarie per essere un vero soggetto di ideazione, elaborazione e attuazione di progetti complessi in grado di sfruttare, in una visione unitaria, le diversità di attrattori di grande richiamo. Una funzione non di affiancamento, rispetto alle attività esistenti, ma di vera proposizione che dovrebbe mirare anche a colmare insufficienti competenze professionali con collaterali attività di formazione, assistenza e tutoraggio. Lo vedremo nell’ultimo commento.
In verità, dal Parco, il Cilento si aspettava di più. E, avrebbe davvero meritato di avere di più.
Alfonso Malangone – Ali per la Città – 18/01/2023 (segue)
da Alfonso Malangone
(Ali per la Città)
Le considerazioni espresse nei precedenti commenti lasciano ben poco spazio a dubbi o fraintendimenti: il ritardo del Cilento è la conseguenza storica, sociale e culturale di una colpevole gestione della delicata fase di passaggio da un sistema chiuso, forse ancora feudale, alle ‘libertà’ del nuovo ordine degli anni ’70. Con la fine dell’isolamento, infatti, tutti gli ‘equilibrati squilibri’ di una rispettosa convivenza tra molti bisognosi e pochi privilegiati furono sostituiti da rapporti di apparente parità, ma crudelmente sbilanciati, che imponevano alle componenti più deboli comportamenti estranei alle loro mentalità consolidate. Nell’isolamento, c’erano state libertà che nella libertà divennero isolamento. Una vita da prigionieri, ‘dura ma tranquilla’, anche rassegnata, si trasformò in una ‘agitata’ esistenza fatta di sfide quotidiane con menti forestiere ‘più smaliziate’ o più spregiudicate, sicuramente meno ‘ingenue’. Così, chi ‘poco aveva e poco poteva’ divenne vittima di imbonitori e speculatori pronti a trasformare le sfortune altrui in fortune proprie. Doveva essere compito dei portatori del ‘rinnovamento’ accompagnare la nuova stagione con progetti di aggregazione e di compartecipazione volti a favorire una formazione adeguata alle nuove esigenze, ma le cose andarono diversamente. La ‘scoperta’ delle Cooperative fu un espediente per risolvere i problemi di chi le organizzava, piuttosto che per creare utilità a favore degli altri partecipanti. Un mare di fondi statali fu gestito da alcuni per fare infrastrutture produttive che, come cattedrali nel deserto, dimostrano ancora oggi la velleità e l’inutilità dei progetti. Se non peggio. In giro, ci sono opere di cui non si conosce la finalità e aree PIP artigianali che non vengono usate neppure per giocare al calcio, visto che di bimbi ce ne sono davvero pochi. Molti, infine, furono vittime delle loro stesse volontà di mettersi in gioco da soli, di ‘inventarsi un mestiere’. Per non restare schiacciati dalla nuova libertà, furono schiacciati dalle cambiali, dalle Banche e, ancor più, da coloro che i soldi li prestavano alle “loro” condizioni. In sostanza, il Cilento divenne territorio di scorribande, una riserva di caccia economica e sociale per venditori di fumo che si appropriarono delle certezze del presente in cambio della promessa di un futuro. E, purtroppo, dopo almeno quarant’anni, rapporti della specie ancora stanno soggiogando molti Cilentani che, soprattutto nelle aree interne abbandonate dagli uomini, ma pure benedette da una volontà Superiore, vivono nell’eterna attesa di una sistemazione, magari pubblica, o di una patria promessa. Sono situazioni, forse ‘perverse’, difficili da capire, perché è difficile comprendere chi vive da vittima e da carnefice di sé stesso.
Il Cilento sembra aver smarrito vocazione, identità e umanità. Si dovrebbe cambiare, velocemente, ma non è facile porre rimedio ai guasti di decenni e decenni di errata progettazione e di cattiva gestione da parte di chi, forse senza molta perspicacia, ma certamente con grande vantaggio personale, si inventò improbabili ‘rivoluzioni’ industriali e commerciali in un territorio privo di qualsiasi favorevole predisposizione in tal senso.
Ma, non tutto è perduto. Che sia possibile ripartire, lo dimostrano i risultai di altre aree nelle quali interventi di grande coerenza e compatibilità hanno stravolto, in positivo, contesti territoriali con le stesse debolezze e con popolazioni egualmente distribuite in villaggi minimi dispersi nel tempo e nello spazio. Grandi trasformazioni sono state realizzate in Trentino, ad esempio, e nelle fredde lande della Scozia proprio grazie al semplice ‘utilizzo intelligente’ delle diversità trasformate in grandi attrattori. In Scozia, hanno usato il ‘mostro di un lago’ e anche il golf, sport di lusso, realizzando campi dentro le Città con residenze e dimore esclusive. Bene, il Cilento non ha niente di meno di questi luoghi. Anzi, ha di più. Alle concorrenziali ricchezze territoriali, aggiunge il clima, il sole, le spiagge, la ruralità, le memorie dei luoghi dove è nata la ‘civiltà mediterranea’ e si è imposta una ‘dieta alimentare’ che tutto il mondo invidia. Così, abbandonando i ‘venditori di intrugli e di pozioni magiche’, il Cilento deve imparare da subito a investire ‘su sé stesso’, a riconoscere fiducia fino a prova contraria ai tanti giovani professionalizzati che sono davvero gli unici in grado di esaltare i vantaggi della tecnologia applicata all’ambiente, alle tradizioni e alle manifestazioni del talento locale. La verità è che questo territorio è ridotto così perché nessuno ha dato e molti hanno preso, per personale profitto.
Sul possibile contributo degli Enti Locali, c’è poco da dire. A parte la costa, con i tre centri maggiori di Agropoli, Castellabate e Sapri, e la fascia centrale con Vallo della Lucania, la gran parte dei Comuni interni non arriva ai mille abitanti che, combattendo per la sussistenza, sono ‘ingabbiati’ in contrasti campanilistici incredibili accentuati dagli insuccessi di tanti progetti miseramente falliti. Certo, ci sono state, e ci sono, valide eccezioni. Ma solo eccezioni.
Ci potrebbe pensare il Parco, avviato trent’anni fa con molte speranze. Tuttavia, una costruzione da ‘grande carrozzone’, frutto evidente di una generale diffidenza tra parti politiche e sociali, gli ha riservato funzioni amministrative di conservazione e di controllo del territorio, in parte anche esterno al Cilento geo-storico. Di fatto, il principale ostacolo ad una più dinamica presenza è costituito proprio dalle modalità di funzionamento dei suoi Organi, cioè: Presidente, Consiglio Direttivo, Giunta Esecutiva e Comunità, ai quali sono attribuiti poteri talmente incrociati che appare difficile distinguere ‘chi debba fare cosa’ e ‘chi debba controllare cosa’. Una struttura costruita con il bilancino, per frenare eccessi, invidie e gelosie, non è proprio la più adatta per affrontare situazioni critiche. Così, alla faccia di chi spera ancora, il Parco pensa solo a sostenere sé stesso. Per costruire le proprie sedi, tra cui l’ambizioso Centro della Biodiversità, oggi di utilizzo incerto, completato dopo nove anni al costo di ben 9milioni di euro, e per qualche altro investimento, ha fatto debiti incredibili causando una situazione finanziaria ‘fallimentare’ se si guarda agli impegni di spesa, i residui passivi, che sommano per la cifra astronomica di € 23,1nilioni a fronte degli incassi sospesi, i residui attivi, pari a € 9,6m.. Ma, lo sanno, al Parco, in che condizioni sono? Oltre il 96% delle Entrate correnti è rappresentato da Contributi Statali, cioè € 4,4milioni su € 4,6m., e più del 70% è speso per stipendi e oneri vari, salvo errore (fonte: Revisori 2021).
Certo, qualcuno parla anche di progetti realizzati. Però, sarebbe interessante sapere qualcosa del “QualiParco”, degli allevamenti ovini/caprini, della famosa ‘Ospitalità da Favola’, dell’imprenditorialità rurale, dei percorsi paesaggistici, della “Carta del Parco”. E, basta qui.
Né si hanno notizie dei Forum sul turismo. Il primo, nell’Aprile 2018, con la partecipazione di oltre 100 convenuti, divenne uno “sfogatoio” per denunciare i ‘lampioni rotti’ o le ‘buche sulle strade’ (fonte: 105tv).
Eppure, il Parco ha gli strumenti e le previsioni Statutarie per essere un vero soggetto di ideazione, elaborazione e attuazione di progetti complessi in grado di sfruttare, in una visione unitaria, le diversità di attrattori di grande richiamo. Una funzione non di affiancamento, rispetto alle attività esistenti, ma di vera proposizione che dovrebbe mirare anche a colmare insufficienti competenze professionali con collaterali attività di formazione, assistenza e tutoraggio. Lo vedremo nell’ultimo commento.
In verità, dal Parco, il Cilento si aspettava di più. E, avrebbe davvero meritato di avere di più.
Alfonso Malangone – Ali per la Città – 18/01/2023 (segue)