Aldo Bianchini
– E’ la seconda volta che nel giro di pochi anni mi capita di prendere parte come spettatore indipendente alle manifestazioni, ormai istituzionalizzate, per celebrare la nascita di Martin Luther King in tutti gli Stati Uniti d’America.
La festa del 15 gennaio, con una ritualità impressionante, evoca sentimenti diversi ma comunque uniti, con punti di vista dissimili, nella ricostruzione storica di un Paese che ancora annaspa nella ricerca di una identità comune tra bianchi e neri, nonostante siano già passati 94 anni dalla nascita e 55 dalla morte (ucciso il 4 aprile 68 a Menphis con un colpo di carabina d alta precisione) di Martin Luther King, il leader di colore che più di tutti e di ogni altra cosa ha rappresentato il sogno dell’America intera.
La festa è di una semplicità eccezionale, non ci sono organizzatori specifici e/o ffaristi di giornata come in Italia o in Europa; la gente si riversa per strada, dopo aver effettuato il canonico alza bandiera davanti casa, e si raduna nei grandi spazi liberi e nelle poche piazze (parlo della pancia dell’America) dove si esibiscono artisti di ogni genere con canti, suoni e balli. Non ci sono personaggi prescelti e/o selezionati per credo politico come accade da noi; qui nel cuore dell’America tutti (almeno il 15 gennaio) si sentono liberi di esprimere il proprio pensiero, almeno nella ricorrenza di che trattasi.
Il 15 gennaio 1929 è arrivato, come un dono divino, dal cielo tra la popolazione di colore che, forse, aspettava da qualche secolo il Messia; e così è stato nella realtà con quel suo roboante “I have a dream”.
In un immenso spazio verde tra West Palm Beach e Mar-a-Lago (l’isolotto con le meravigliose ville di Donald Trump) ho trascorso una domenica di festa e di assoluta integrazione; ma anche di coinvolgimento concreto con un pezzo di storia drammatica degli anni ’60 degli Stati Uniti d’America.
Estremamente celebre è rimasto il discorso che Martin Luther King tenne il 28 agosto 1963 durante la marcia per il lavoro e la libertà davanti al Lincoln Memorial di Washington e nel quale pronunciò più volte la fatidica frase I have a dream (“Io ho un sogno”) che sottintendeva la (spasmodica) attesa che egli coltivava, assieme a molte altre persone, perché ogni uomo venisse riconosciuto uguale ad ogni altro, con gli stessi diritti e le stesse prerogative, proprio negli anni in cui, per dirla con le parole di Bob Dylan, i tempi stavano cambiando.
Il sogno di Martin Luther King è ancora lì immobile nella storia; molte cose sono state realizzate e conquistate dalla popolazione afro-americana, tantissime cose sono ancora di là da venire per la realizzazione completa del sogno. L’America ha avuto addirittura un presidente afro-americano che, comunque, non è riuscito a dare ai suoi simili tutti i diritti civili che necessitano per una parità razziale reale.
Che bel ricordo!
Tra le figure positive del XX secolo Martin L. King è un colosso indimenticabile
Dovremmo celebrarlo in tutto il mondo civile.
Ai miei due figli volli dare un secondo nome: a Nicola, nato il 28/02/1950, aggiunsi Bertrand, in memoria di Bertrand Russel, morto il 2 febbraio 1950; a Francesco, nato il 21 febbraio 1971, aggiunsi il nome Martin.
La pace, l’uguaglianza, la democrazia, la solidarietà sono i miei valori e ho voluto che i miei figli ne sentissero il l’onere e la bellezza in ogni atto della loro vita.