scritto da Luigi Gravagnuolo 15 Novembre 2022 per Gente e Territorio
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L’armata russa era allora la più grande del mondo: un milione di fanti, 250mila irregolari cosacchi che costituivano il grosso della cavalleria d’assalto, 750mila riservisti. In tutto due milioni di militi, animati da un esacerbato fanatismo ortodosso, rassicurati dai loro sacerdoti che Dio avrebbe ricompensato col paradiso ogni morto in battaglia per la cristianità.
Lev Tolstoj, che militò in Crimea nelle truppe russe, ricorda nei suoi Racconti di Sebastopoli: “Kornilov, passando in rassegna le truppe, diceva: <<Morremo ragazzi, ma non consegneremo Sebastopoli>> ed i nostri russi, poco portati alle belle frasi, rispondevano: <<Morremo, urrà!>>.
Erano convinti della loro invincibilità, lo aveva dovuto constatare amaramente Napoleone I nel 1812. A metà secolo il mito della grande vittoria patriottica di Borodino contro Napoleone – che poi in realtà non era stata una vittoria, pur avendola preparata – ancora aleggiava tra il popolo e l’esercito russo. Quell’imponente e furibondo esercito disponeva però di armamenti obsoleti e soffriva di un grande disordine organizzativo. La catena del comando faceva acqua da tutte le parti, con i più alti ufficiali, rampolli viziati dell’aristocrazia zarista, dediti più alla vodka, alla bella vita e alle medaglie da spillarsi sull’uniforme che al benessere dei propri soldati ed all’efficienza delle iniziative sul campo. Spesso si facevano dispetti tra loro, per mettere in cattiva luce il collega ed avanzare in carriera prendendone il posto. Karl Marx, proprio lui, il fondatore del comunismo, che nutriva un giudizio sprezzante della Russia ‘nemica della libertà’, dello stato maggiore della grande armata scrisse: “Tra gli ufficiali della corte zarista il principale merito consiste nella stolida obbedienza e nella propria servilità, congiunta all’accuratezza nello scoprire una pecca nei bottoni e nelle asole dell’uniforme”.
La Sublime Porta, aggredita ed invasa, protestò energicamente per la violazione da parte della corte di San Pietroburgo del diritto internazionale così come sancito dal Congresso di Vienna e chiese che Francia ed Inghilterra facessero valere i loro impegni a sua protezione. Ed esse, esperiti senza esito svariati tentativi di approccio diplomatico verso uno zar sordo ad ogni argomento, dichiararono guerra alla Russia.
Come si è sopra accennato, riuscirono anche – e fu decisivo – a tagliare il filo che univa l’Austria alla Russia. Le paventarono il rischio che San Pietroburgo avrebbe occupato tutti i Balcani, sui quali anche gli Austro-Ungarici avevano mire, e le garantirono che, se Vienna si fosse schierata a loro fianco contro lo zar, esse nulla avrebbero fatto che avrebbe potuto modificare l’assetto della penisola italiana, a sua volta in pieno fermento risorgimentale, stavolta antiaustriaco. Oltretutto, invadendo uno Stato legittimo ai sensi dei Trattati di Pace di Vienna, lo zar ne aveva anche palesemente violato le disposizioni; le quali prevedevano l’obbligo, da parte delle potenze sottoscrittrici della pace di Vienna, ad intervenire in difesa dell’autorità legittima in pericolo.
Per parte sua, al nord del continente, la Prussia nel ‘54 pensò bene di approfittare dell’attenzione dello zar tutta rivolta al sud-ovest per aprire un fronte nel Baltico, minacciando, grazie al supporto della flotta inglese, finanche San Pietroburgo e determinando di conseguenza la necessità per lo stato maggiore russo di dislocarvi parte delle sue forze, sottraendole ai Balcani.
Non mancarono le ‘sanzioni’, che non sono un’invenzione dei giorni nostri. Le potenze alleate proclamarono, tra le altre misure: 1. il divieto del commercio con la Russia per tutti gli Stati, allo scopo di colpire i profitti degli autocrati aristocratici della cerchia dello zar e spingerli ad un putsch contro il proprio governo; 2. l’invio di un corpo di spedizione e di una flotta nel Golfo di Finlandia per costringere la Russia a dislocarvi parte dell’esercito; 3. il supporto finanziario e oggi diremmo di ‘intelligence’ ai Persiani del Caucaso ed ai Polacchi e Finlandesi a loro volta in lotta per liberarsi dal dominio russo.
Insomma, la Russia si trovò isolata nel contesto europeo. Solo un Regno si rifiutò di aderire alle sanzioni arroccandosi su posizioni neutraliste, di fatto filorusse, un po’ alla maniera dell’Ungheria di Orban oggi. Fu il Regno delle Due Sicilie di Ferdinando II, ma su questo rinvio a più avanti.
Ad un anno dall’inizio delle ostilità, nel settembre del ‘54, i velieri anglo-francesi entrarono nel Mar Nero e attraccarono sulle coste della Crimea. I Russi, ancora impelagati nei Balcani, dove intanto faticavano a contenere gli Austro-Ungarici, furono perciò costretti a ritirare alla bene e meglio le truppe dai Principati danubiani per rafforzare le difese della penisola di Crimea.
La battaglia sul campo, nota come Battaglia di Alma dal nome del fiume dove si svolse, fu decisa dai minié, fucili francesi di ultima generazione, per gittata, precisione e potenza di gran lunga più efficienti dei vecchi arnesi dei Russi; un po’ come i missili himars americani dei giorni nostri, che hanno cambiato le sorti del conflitto in corso in Ucraina. Tenendosi a distanza di sicurezza dalle armi russe, gli Zuavi francesi dalle colline ed i fanti a valle sbaragliarono le difese fuori le mura di Sebastopoli. Cominciò così il lungo assedio della città più cara allo zar ed al popolo russo.
Sebastopoli cadde nel settembre del ‘55 e la sua caduta segnò la sconfitta della Russia; ma la sua eroica difesa restò per sempre nella memoria del popolo russo. Ai soldati russi ancora oggi viene insegnata a cantare la Ballata su Sebastopoli di Aleksej Aputchtin:
“Non è allegra, ragazzi miei, la canzone che ora intono;/Della vittoria questo canto non ha il potente suono,/Come quello che i nostri padri a Borodino cantarono […]/Vi canterò invece […] di innumeri nemici sbarcati dai velieri,/Scesi sulla nostra terra, di sconfitta forieri […]/Eppure tale fu la loro vittoria che per lungo tempo dopo/Di tornare a cercar guai non videro lo scopo,/Con il volto arcigno ed il naso rotto/Ripresero la via del mare senza un ghigno […]/Per undici mesi durò quello strazio […]/Lasciatemi intonare questo canto doloroso,/Meno glorioso non è del canto vittorioso/Che i nostri padri a Borodino cantarono”.