scritto da Vito Nocera il 20 Ottobre 2022
per Gente e Territorio
Quel 15 ottobre del ‘67, alla notizia dell’incidente che se lo portò via ad appena 24 anni, piansi.
Era un calciatore del tutto fuori dagli schemi, originale e intelligente Gigi Meroni. Soprattutto giocava un calcio fantastico. Dribblava con leggerezza, insieme visionaria e concreta. I calzettoni arrotolati alle caviglie, le gambe magre e nervose, la barba incolta e il caschetto di capelli sul modello dei Beatles.
Un calciatore così non poteva non colpire, in quegli anni, l’immaginario di tutta una generazione. Poetico ed anticonformista, capace – creativo – di disegnarsi da sé gli abiti. Amava una bellissima giostraia, straniera e sposata, in anni in cui ancora da noi non c’era il divorzio.
Dopo 55 anni ancora non si cancella quel suo svolazzare lieve sulle zolle destre degli stadi.
Era già in nazionale e ormai considerato un campione, ma lui sembrava indifferente agli onori. La sua è stata come una missione, fare del calcio letteratura e poesia. Introdurre quella nota vibrante senza la quale l’orchestra è solo noia.
Allora come ora così ve ne erano pochi. Gigi era il nostro George Best, entrambi si impadronirono dei nostri sogni fanciulli. Mettevano in campo e fuori ciò che una generazione intera sentiva dentro, ma che non sempre trovava gli strumenti per dirlo. Anni di speranze illimitate, desiderio di sovvertire del mondo ogni cosa, mutarne la grammatica civile, fare della realtà un paradiso di fratellanza e di pace. Anni forse anche di illusioni.
La morte di Meroni, in quell’umido ottobre, fu la prima di quelle tante illusioni a spezzarsi. Aveva giocato contro la Samp col Torino, con l’amico Poletti si fermò dopo la gara per comprare le sigarette e fu travolto da un’automobile a morte.
Io continuai a giocare con quella maglietta bianca con il numero 7, cucito alla meglio da mia mamma, ma sapevo che la favola era già finita. Le attese, la gioia, la voglia di crescere e affacciarsi a tutto titolo al mondo. Sentivamo che ancora stavano esplodendo cose e fermenti.
Dopo pochi mesi irrompe il maggio francese, poi il ’68 italiano, in un contesto di slanci straordinari che attraversavano il globo. Ci tuffammo in quel gorgo, ma Gigi Meroni non c’era già più. Lui che aveva, a suo modo, di fatto anticipato ogni cosa. Metafora e simbolo, quasi, della impossibilità di volare così alto.
Anche questi giorni di ottobre, nei venti di guerra e col clima sociale qui da noi, non sono privi di una qualche mestizia e tristezza. E però poi, ricordando Meroni, la speranza non muore se negli odierni autunni ingialliti – in qualche zolla di campo – spunta, a dispetto di tutti, un Kvaratskhelia a dribblare leggero con lo stesso ingenuo e formidabile estro di Gigi.