da Alfonso Malangone
(Ali per la Città)
SALERNO – L’avvio della refezione scolastica ha posto molte famiglie di fronte agli aumenti decisi dall’Amministrazione Comunale nella veste di responsabile del servizio mensa, essenziale complemento del diritto allo studio (fonte: MIUR). E’ noto, infatti, che la quota di contribuzione a carico delle famiglie è stata elevata con il piano di riequilibrio finanziario elaborato dopo l’adesione al decreto Aiuti, subendo incrementi nell’ordine di circa il 35%. Così, ben 819 famiglie hanno presentato una petizione per la riduzione dei costi, mentre altre mamme hanno deciso di contestare il diniego opposto da un Istituto Scolastico al consumo di pasti portati da casa (fonte: diverse).
Il diritto all’autonoma alimentazione dei bimbi, dopo discussioni e contrasti tra gli addetti ai lavori, ha trovato una definitiva disciplina nella Sentenza n. 20504/2019 della Corte di Cassazione a Sezioni Unite e, quindi, con la particolare autorevolezza che rende la decisione un riferimento interpretativo dal quale non è possibile discostarsi.
La Corte ha affermato, in primo luogo, che “un diritto soggettivo, perfetto e incondizionato, all’autorefezione individuale…non è configurabile”, è “privo di base normativa” e, quindi, neppure opponibile in sede giudiziale. In due parole: non esiste. Ha precisato, poi, che il ‘tempo mensa’ è parte integrante del ‘tempo scuola’ e che entrambi concorrono all’unica proposta formativa, con contenuti educativi, anche alimentari, e di socializzazione, che le Istituzioni Scolastiche debbono presentare alle famiglie e che queste accettano al momento della scelta (fonte: MIUR). Ha aggiunto che non è possibile autorizzare il pasto individuale, ancor più se in locali diversi dalla mensa, perché si obbligherebbero le Amministrazioni a porre in essere differenti vigilanze con gli stessi docenti, ovvero ad assumerne altri. Sulla richiesta di un corrispettivo, la Corte ha stabilito che essa non è contraria alla disposizione Costituzionale sull’istruzione gratuita, perché non può ritenersi che “si debba necessariamente assicurare la completa gratuità di tutte le possibili prestazioni”. Infine, ha riconosciuto la legittimità dell’offerta del servizio nei limiti “delle effettive disponibilità finanziarie, umane e strumentali disponibili”. La conclusione della Sentenza pone fine ad ogni discussione: “Le famiglie (che aderiscono) hanno esercitato una libertà di scelta educativa dalla quale scaturisce il loro diritto di partecipazione al procedimento amministrativo per influire sulle modalità di gestione del servizio pubblico di mensa, ma non il diritto sostanziale di performarlo secondo le proprie esigenze individuali”. Quindi, non ci dovrebbero essere dubbi: l’Istituzione Scolastica può, e deve, disattendere le richieste del pasto portato con il classico ‘panierino’. Però, c’è un però. La Sentenza riconosce alle famiglie la possibilità di “influire” sulle scelte organizzative “in attuazione dei principi di buon andamento dell’amministrazione pubblica, di cui all’art. 97 Cost., e con i consueti strumenti a tutela della legittimità dell’azione amministrativa” (fonte: cit.). Cioè, ci sarebbe la possibilità di ‘influire’ in un’ottica di positivo confronto. E, allora: si può concordare a livello locale qualcosa di diverso?
Su questo punto, ci sono state alcune Sentenze del Consiglio di Stato, organo di consulenza giuridico-amministrativa e di giudizio nelle vertenze che coinvolgono la Pubblica Amministrazione. Bene, premesso che con una prima Sentenza, la n. 5156/2018, il Consiglio aveva già riconosciuto l’autorefezione come un diritto di libera scelta, con le successive pronunce n. 5839 e 6926/2020 ha dichiarato che, se pure può non essere presente un diritto soggettivo, come ha detto la Cassazione, ci sarebbe comunque un interesse legittimo ad avere dall’Amministrazione un comportamento rispettoso dei limiti di esercizio del suo potere. In sintesi, non potrebbe essere impedito il pasto domestico, giustificando il diniego con l’impossibilità di effettuare una adeguata vigilanza, o per evitare la contaminazione dei cibi, perché la sorveglianza può essere svolta comunque dal personale in servizio facendo consumare il pasto domestico negli stessi locali mensa. Infatti, dice il CdS: “l’autorefezione non comporta una modalità solitaria dovendosi, per quanto possibile, garantire la consumazione dei pasti in un tempo condiviso che favorisca la socializzazione” (fonte: cit.). Sono Sentenze solo Amministrative, ma aprono ampi spazi di discussione.
Così, in assenza di indirizzi definiti, è comprensibile non siano assunte ‘decisioni di libertà’ da parte dei Dirigenti Scolastici, che seguono la Cassazione, e siano, all’opposto, avanzate ‘richieste di libertà’ dalle famiglie più deboli, che seguono il CdS, chiamate a pagare di più per motivi non dipendenti dalle loro condotte. Situazione peraltro comune a tutti i cittadini, oggi chiamati a risanare un Bilancio Pubblico ‘malconcio’, salvo errore, nonostante tante dichiarazioni sulla presenza di ‘stabili equilibri’ (fonte: Bilanci).
L’urgenza di una soluzione non consentirebbe alternative rispetto alla riduzione delle quote-mensa. Del resto, si tratta di somme irrisorie visto che l’incasso totale, per il 2022, è stato preventivato in € 918.000 (fonte: Bilancio, pag. 58), diviso tra cinque fasce Isee, e che l’aumento giornaliero deciso per tutte le quote produce un totale annuale di € 536, salvo ogni errore (fonte: Comune). Non sembra proprio una cifra in grado di ‘salvare la Città’, mentre l’incremento per le fasce più basse, almeno fino alla terza, mette certamente a rischio molti bilanci familiari. Per comprenderlo, basta verificarne gli effetti su una famiglia formata da genitori e due figli, con un reddito lordo di € 1.500 al mese, con un appartamento del valore di € 180.000, cat. A2, e un mutuo di residui € 50.000. Il calcolo può essere fatto in autonomia sul sito INPS. Così, senza molte spiegazioni, quella famiglia avrebbe un Isee simulato di € 11.215 (fonte: INPS) e rientrerebbe nella terza fascia compresa tra 9.001 e 15.000 euro. Pagherebbe, quindi, € 3,10 a pasto che, per i due figli, fanno € 6,20 al giorno, € 124 al mese (+32) e € 992 all’anno (+256). Ma, con € 1.500 lordi al mese, ne incassa netti solo € 1.120 con pure il mutuo da pagare. Chi non ha un mutuo, ha un fitto, salvo i casi particolari di donazioni o eredità. In ogni caso, togliere € 124 per il pranzo di due bimbi, il 10% del reddito netto, appare davvero sconveniente.
Ci sono situazioni anche più gravi, che imporrebbero una profonda riflessione su cosa fare per riequilibrare i conti pubblici senza costringere i bimbi a subirne le conseguenze. E, in verità, non sembra neppure giusto che le subiscano i padri, chiamati a pagare per i possibili errori di altri. Salva ogni buona fede.
Alfonso Malangone – Ali per la Città – 19/10/2022