di Giovanni Falci
SALERNO – Il 15 luglio di quest’anno, mia figlia Benedetta e mia cognata Teresa hanno pubblicato su Instagram due foto di mia suocera Reginalda Di Santi, detta Reginella, scomparsa da qualche anno.
L’occasione è stata la ricorrenza della sua data di nascita, il suo compleanno.
Quella visione di due foto analogiche scattate molti anni fa mi ha profondamente colpito in senso positivo e mi ha fatto riflettere sulle foto. Quelle di una volta.
La foto di una volta, quella analogica, è una “cosa”.
Infatti la conserviamo con cura come un oggetto che ci sta a cuore.
La sua fragile materialità è esposta al degrado; viene attaccata dalla luce, dall’umidità, perde colore etc. Possiamo dire che essa nasce, invecchia e poi muore.
Anche l’oggetto fotografato con modalità analogica si allontana e si colloca nel passato.
La fotografia è, dunque destinata a morire ma è anche al contempo medium di resurrezione.
Non si limita, cioè, a riportare alla memoria i morti ma rende possibile rivivere una presenza facendoli riapparire in vita.
In definitiva la fotografia è il cordone ombelicale che continua a legare il corpo amato all’osservatore anche dopo la morte; gli consente una rinascita, lo salva dal degrado della morte. La fotografia “ha qualcosa a che vedere con la resurrezione” come dice Barthes nell’opera “La camera chiara. Nota sulla fotografia”.
La fotografia analogica trasferisce dal negativo sulla carta le tracce di luce emanate dall’oggetto, nel mio caso da mia suocera. Nella camera oscura la luce rinasce.
La foto digitale, invece, trasforma i raggi di luce in dati.
I dati sono privi di luce: non sono né chiari né scuri.
La foto digitale, perciò, spezza la relazione quasi magica che lega l’oggetto nella fotografia mediante la luce.
Analogico significa analogo.
La luce emanata da mia suocera si è conservata in Sali di argento.
Non esiste, invece alcuna analogia, somiglianza, tra la luce e i dati.
Con il digitale la luce si traduce in dati e perciò si perde.
Nella fotografia digitale l’alchimia cede il passo alla matematica sfatando la fotografia stessa.
Per questa ragione sempre Roland Barthes nell’opera citata ci dice che la fotografia analogica è un “certificato di presenza”.
Le foto di mia suocera raccontano una storia, un destino, potremmo dire che hanno qualcosa di romanzesco.
La fotografia digitale, invece non racconta granché, è episodica.
Lo smartphone aiuta a creare una fotografia dotata di un’altra temporalità; una foto senza destino né ricordo, vale a dire una fotografia istantanea.
Il volto di mia suocera in quelle due fotografie rappresenta il “culto del ricordo dei cari lontani o defunti” come nella più classica tradizione della memoria nell’occidente.
In forma di selfie il volto umano, invece, ritorna a conquistare la fotografia, ma il selfie fa di esso volto una face da esporre su piattaforme digitali come Facebook.
A differenza del ritratto analogico, il selfie si carica del solo valore espositivo, in esso sparisce il valore culturale.
Potremmo dire che gli manca la bellezza malinconica che mi ha suggerito il volto di Reginella; il selfie è caratterizzato da un’allegria digitale.
Il selfie in definitiva non è una cosa nel senso indicato per la fotografia analogica, è un’informazione, una non-cosa concetto su cui si è intrattenuto Byung Chul Han brillante filosofo coreano che vive e insegna in Germania.
Anche per le fotografie perciò vale la regola ideata da Byung Chul Han e cioè che le non-cose scacciano le cose.
I selfie fanno sparire le fotografie analogiche; essi valgono all’interno della comunicazione digitale, mentre i ricordi, i destini, le storie vengono fatti sparire.
Le due foto di mia suocera, di Reginella sono una cosa, un oggetto che sta a cuore; sono espressione della sua persona. Sono la madre e la nonna di Teresa e Benedetta; esse incarnano la sua presenza.
C’è solo un’ultima riflessione che mi è venuta da fare: l’esibizione sui social di quelle foto forse andava evitata, quella pubblicazione l’ha fatta uscire dalla “cosa del cuore”.
Secondo me certe foto come quelle di cui discuto se mostrate ad altri perderebbero la loro magia; il proprietario le deve conservare solo per sé.
Così facendo quelle fotografie si differenziano dai selfie e dalle foto digitali che sono messaggi visivi, informazioni e, perciò “DEVONO” essere condivisi; la loro essenza è l’esibizione mentre la fotografia analogica è il mistero.
In ogni caso, tradendo l’ ultima considerazioni esposta, mi va di ri-pubblicare a corredo della mia riflessione le foto di mia suocera che, contrariamente ai luoghi comuni su questi parenti acquisiti, manca pure a me.
Giovanni Falci