scritto da Luigi Gravagnuolo il 27 Febbraio 2022 per Gente e Territorio
Lo trovate qui a fianco, leggetelo per intero il quesito sulla separazione delle carriere dei magistrati su cui saremo chiamati a pronunziarci la prossima primavera e, per favore, il primo di voi che arriva fino alla fine faccia un fischio.
Si può concepire che su questo testo decidano milioni di elettori, dai più ignoranti ai più raffinati giuristi tutti alla stessa stregua? Ma tant’è, dovremo pronunziarci e facciamocene una ragione.
Vediamo dunque in primo luogo di decifrare cosa ci chiede il quesito, quindi alcune ragioni per il sì ed altre per il no.
In estrema semplificazione, le funzioni fondamentali della magistratura sono quella requirente e quella giudicante.
I magistrati che svolgono attività requirenti sono i Pubblici Ministeri, i cui uffici sono organizzati presso le Procure della Repubblica. Essi dispongono per l’espletamento delle loro mansioni della polizia giudiziaria, loro subordinata.
I giudici invece sono incardinati presso le Corti e i Tribunali ed hanno il compito di vagliare, nel corso dei procedimenti giudiziari sentite le ragioni degli uni e degli altri, la fondatezza delle accuse mosse agli imputati dai piemme e dagli avvocati di parte civile.
L’aspirante magistrato oggi, al momento in cui partecipa al concorso per l’ammissione all’esercizio delle funzioni giudiziarie, non deve indicare se poi intenderà fare la carriera di giudice ovvero di piemme. Se supera il concorso diventa magistrato e poi, a seconda delle esigenze dei diversi tribunali e più in generale della giustizia, viene assegnato all’una o all’altra mansione, con la possibilità di passare nel corso della sua vita lavorativa da pubblico accusatore a giudice e viceversa. È il concetto di ‘porte girevoli’ tra giudici e piemme di cui tanto si parla.
Veniamo al quesito referendario, tradotto in poche parole è questo: “Vuoi abrogare le norme che consentono ai magistrati il passaggio dalla funzione requirente a quella giudicante e viceversa?”.
Se dovessero vincere i Sì, le due carriere saranno nettamente separate, i piemme faranno i pubblici accusatori per tutta la loro vita professionale, i giudici avranno una funzione rigorosamente terza rispetto all’accusa ed alla difesa nei processi. Se invece vinceranno i No, tutto resterà come oggi è.
Le ragioni del Sì. Chi sostiene l’esigenza di separare nettamente le due carriere lo fa a partire dalla considerazione che i magistrati nel loro insieme, condividendo gli stessi percorsi professionali, maturano tra loro una solidarietà corporativa che induce spesso i giudici non essere fino in fondo imparziali. Il giudice nel processo ascolterà con orecchie più attente gli argomenti del suo collega piuttosto che quelle dell’avvocato della difesa. Ricordano anche i sostenitori del Sì che è successo addirittura, sia pure raramente, che un piemme sia passato nel corso di uno stesso processo alla funzione giudicante e viceversa! Ad adiuvandum, i sostenitori del Sì ricordano come in quasi tutte le grandi democrazie del mondo le carriere dei magistrati requirenti e dei giudici siano separate.
Le ragioni del No. Si starebbe facendo tanto rumore per nulla, con l’unico esito di acuire tra i cittadini il discredito per la magistratura al quale i proponenti intenderebbero porre rimedio. In realtà già oggi l’alternanza delle funzioni è consentita ad ogni singolo magistrato nel corso della vita solo per quattro volte, con la riforma Cartabia ridotte a due volte. Inoltre, il quesito non incide a fondo sulla separazione delle carriere; né potrebbe farlo, occorrerebbe infatti una revisione costituzionale. L’eventuale vittoria dei Sì ricadrebbe solo sulla separazione delle funzioni, non delle carriere. I magistrati tutti continuerebbero, qualunque fosse il risultato del referendum, ad essere reclutati attraverso gli stessi concorsi, parteciperebbero alle stesse scuole di formazione e risponderebbero ad un unico Consiglio Superiore della Magistratura, perché così è previsto dalla nostra carta costituzionale. In pratica, dicono i sostenitori del No, il referendum riguarda un aspetto marginale dell’amministrazione della giustizia. Infine, argomento tutt’altro che secondario, l’esperienza reale delle vicende giudiziarie testimonia, ad avviso dei sostenitori del No, che i giudici italiani nelle loro sentenze sanno essere ‘terzi’ fino in fondo, come da loro inderogabile dovere. Il rischio più grande, sempre a giudizio dei sostenitori del No, è che, indipendentemente dalle buone intenzioni dei promotori, l’insistenza tendenziosa sulla presunta parzialità dei giudici nell’esercizio delle loro funzioni finisca per insinuare ancora di più agli occhi dei cittadini un inaccettabile sospetto etico sulla funzione giudiziaria.