Aldo Bianchini
SALERNO – Sono stato anche io, per un paio di anni dal 61 al 63, allievo del prof. Domenico Varricchio (all’epoca su di lui ingiustamente furono scaraventate una serie indescrivibile di menzogne) e pur non avendo mai raggiunto livelli competitivi accettabili il “troppo presto dimenticato prof” non mi cacciò dalla sua squadra come fece con tanti altri atleti in erba. Ammirava il mio spirito di sacrificio negli allenamenti, spirito che non riuscivo a trasferire in gara perché probabilmente no avevo quel “quid” in più necessario all’ottenimento di risultati. Quindi, alla fine, fui io che abbandonai dopo aver vissuto in mezzo a giovani colleghi che, invece, riuscirono in poco tempo a valicare quella barriera che esiste tra l’allenamento e la gara.
Tra i tanti ricordo l’ostacolista Frasca (papà del noto giornalista salernitano), il fondista Elio Cincione, l’astista Raffaele Ricci (poi presidente provinciale del CONI), il siepista Vittorio Moscarelli (per lui mi riservo di raccontare un episodio), il manager Aldo De Luca, il lanciatore Franco Cammareri con Pappalardo, il compianto velocista olimpico Pasquale Giannattasio, il saltatore Erminio Azzaro (di lui racconterò prossimamente un simpatico aneddoto) e il mezzofondista Bruno Parisi che in quegli anni dettò legge soprattutto sulla distanza classica del mezzofondo, cioè i 1.500 metri piani; e poi c’erano tanti altri giovani atleti, quasi tutti molto bravi, con alcuni dei quali ogni tanto mi incontro per le vie di Salerno, anche se da quegli anni sono armai passate 60 lunghe primavere.
L’amico stimabilissimo Arnaldo Amabile, anche lui allievo del prof. Varricchio, mi ha inviato alcune foto di quel tempo passato (tratte dal suo immenso archivio di giornalista e vignettista) con la spiegazione in breve di alcuni momenti significativi dell’atletica leggera salernitana che si cimentava con altre realtà molto più grosse e che veniva sempre seguita da un folto e caloroso pubblico, quasi come la Salernitana che in quegli anni si avviava al grande ritorno nel calcio professionistico. Insomma roba d’altri tempi, oggi inimmaginabili.
Va anche ricordato che (almeno per come vedevo e vedo io la pratica dello sport) l’atletica rappresentava allora lo sfogo necessario e quasi naturale per tutti quelli che non godendo di speciali risorse economiche intendevano, comunque, cimentarsi in uno degli sport classici dell’umanità; e poi non va sottovalutato la spinta che le Olimpiadi romane del ’60 diedero all’intero movimento sportivo, soprattutto all’atletica leggera dove Livio Berruti aveva stravinto le olimpiadi.
Oggi mi piace fermare la vostra attenzione su Bruno Parisi che come ho detto all’epoca era, forse, il miglior mezzofondista apparso sulla scena salernitana. Difficile che si ricordi di me, lui era già un divo mentre io una semplice comparsa.
Di lui ricordo un episodio che turbò la mia visione dello sport e, in primo luogo dell’atletica; il fatto avvenne nel contesto della disputa di una campestre (campionato provinciale studentesco) disputati nel ‘62 o nel ’63 nell’arena della Caserma Angelucci (Via Lungomare Marconi) dove esisteva un enorme sterrato (ora ci sono due palazzi) ottimo per la disputa della corse campestri. Ovviamente strafavorito per la vittoria era soltanto lui: Bruno Parisi. Anche se alle sue spalle c’erano i temibili atleti del Liceo di Sala Consilina e quelli di Vallo della Lucania. Prima della partenza notai un certo movimento intorno a Bruno e, quindi, seguii quei movimenti quasi come fossero stati coordinati in precedenza. Parte la gara con molti atleti; forse non erano stati percorsi neppure un centinaio di metri quando un grido di Parisi allarmò tutti. Un atleta di Vallo della Lucania gli aveva centrato il tallone del piede destro con un chiodo della scarpetta. La gara per Bruno, ovviamente, finì lì. Avevo assistito ad un maldestro e proditorio attentato sportivo in danno di un atleta più forte.
Il fatto cambiò, come dicevo, radicalmente il mio modo di vedere la lealtà che dovrebbe esistere sempre e comunque nello sport.
Ho letto, ho letto con crescente interesse il racconto di Aldo, ricco nei mini particolari di persone e fatti. Certo, dopo sessant’anni sorprende la memoria così vivida; è una virtù che veramente si aggiunge alle altre.
Del “Vestuti” Bianchini ricorderà con me le docce fredde d’inverno che ci facevano urlare alle sette del mattino dopo il copioso sudore post allenamento in corsa.
Tra i tanti atleti citati desidero ricordare il pugile professionista Giorgio Pappalardo (peso welter, 16 vittorie su 24 incontri).
In anni recenti lo incontrai una mattina presto dal salumiere a Mariconda. Lo salutai con rispetto: “Buongiorno signor Giorgio”, e lui dall’alto della grande umiltà rispose: “Prego Giorgio!”…