Aldo Bianchini
SALERNO – Il gigante buono, mitico bisteccone, del giornalismo sportivo non c’è più. E’ andato via rumorosamente, come era abitua da sempre a vivere la sua vita pubblica, perché nonostante tutti gli appelli e le raccomandazioni si era lasciato scivolare nell’oblio e nel silenzio incontaminato dell’aldilà.
“Ora il re è ai remi della sua barca per solcare le acque del suo fiume Tevere”, così ha twittato la figlia Susanna (che Giampiero amava profondamente), giornalista del Tg/5, in ricordo del grande ed ingombrante papà. E’ vero, la storia di Galeazzi era nata proprio sul Tevere come canottiere allenato da suo padre e dal Tevere i suoi amici gli hanno dedicato un commovente “hip, hip, urrà”. Il giornalismo lo ha soltanto consacrato mettendo la classica ciliegina sulla torta già bella e pronta.
Ho incontrato per la seconda volta il mitico Giampiero nel ventre dell’Arechi nel corso del pomeriggio di mercoledì 1° maggio 1991 dopo la partita di calcio Italia-Ungheria (valida per le qualificazioni degli europei) che segnò anche l’inaugurazione del nuovo stadio di Salerno. L’Italia vinse per 3 a 1 (Donadoni, Donadoni, Vialli e Bognar ®) e la nazionale azzurra volò verso gli europei di calcio. Nella sala stampa ebbi modo di incrociarlo di persona, lo salutai e lui con grande affabilità, senza conoscermi o riconoscermi, rispose gentilmente al mio saluto. Tutto qui. La sera nel Tg/1 delle ore 20.00 ebbi modo di seguire il suo servizio televisivo sulla partita; 47” di grande giornalismo, rividi tutta la partita, non mancava niente, neppure il più piccolo dei dettagli. Quel pomeriggio, però, non ebbi la forza ed il coraggio di scusarmi per un piccolo, anche sfizioso, incidente capitato qualche anno prima, esattamente il 15 maggio del 1979.
Quel giorno, insieme ad alcuni miei amici giocherelloni, mi trovavo sulle gradinate del campo centrale del Foro Italico a Roma per assistere alla finale degli internazionali di tennis per quella che è stata una delle partite più prestigiose della storia di quel campo in terra rossa. Alle 15 doveva iniziare la finale tra Vitas Gerulaitis e Guillermo Vilas (6-7, 7-6, 6-7, 6-4, 6-2 in favore del primo); alle ore 13.30 Giampiero era al centro del campo per il classico collegamento diretto con il Tg/1. Pensando e sapendo di potergli dare fastidio (avevo già iniziato a fare televisione con un programma di tennis su Telelibera a Battipaglia e sapevo quanto la concentrazione fosse importante) cominciai a chiamarlo a gran voce, sorretto dal gruppo dei miei amici. Eravamo in poche decine di persone e le chiamate arrivavano a lui, impegnato nella diretta, come stilettate; si girò più volte su se stesso dando chiari segni di giusta irritazione; quando finì il collegamento venne sotto le tribune come una furia, enorme e minaccioso, ovviamente mi mandò a quel paese. Mi pentii subito, ma dopo dodici anni, quando lo incontrai nella sala stampa dell’Arechi, avrei voluto chiedergli scusa; non ebbi il coraggio di ricordarglielo, tanta era la rabbia che sprigionava il suo viso in quel caldo pomeriggio romano.
Per me è stato in assoluto il più grande giornalista-telecronista sportivo di tutti i tempi, e non soltanto per la sua imponente stazza fisica.