Avv. Cecchino Cacciatore
(penalista – cassazionista)
SALERNO – Da qualche giorno si discute di qualcosa che è però già davanti agli occhi di tutti da molti anni: la crisi profonda dell’avvocatura.
Un fatto amarissimo e doloroso.
La discussione ha un pregio.
Non se ne discute ai massimi sistemi o nelle alte sfere, con la solita, insopportabile, inerte pigrizia e la rituale, pavida ipocrisia; quella di una avvocatura che è invecchiata, ma non è mai diventata adulta.
Se ne discute prendendo atto del numero impressionante di cancellazioni dall’albo professionale, soprattutto ad opera di chi è stato costretto a farlo per la sopravvenuta incompatibilità, avendo dovuto cercare ed accettare un doppio lavoro per sopravvivere, o grazie a chi non ha potuto più sopportare il peso fiscale e previdenziale.
Questo è quanto. Questo è tutto.
Ora, è partendo da qui, da questa constatazione di un dato numerico, freddo ed obiettivo, come tagliente e senza pietà dei giovani e dei più anziani avvocati ne è la sua analisi che sfocia in una verità nuda, che solo il chiamare le cose con il loro nome può farci smettere di girare intorno al problema, senza avere il coraggio di afferrarlo e prenderlo per il bavero.
La crisi è economica e fiscale, oltre che dirimente sul piano della parità, tra avvocato e avvocato, e, dal punto di vista previdenziale, tra le generazioni.
Le cause sono molteplici, ma la realtà è questa ed è una.
Lo afferma il Censis: il 72 % dei legali dichiara di trovarsi in una situazione lavorativa critica o molto critica e prevede che quasi per 4 su 10 nel 2022 andrà ancora peggio.
La situazione inizia a preoccupare davvero.
Accanto ai destini dei singoli, infatti, sia dei giovani, che vedono tarpate dall’inizio le ali di una loro ambizione, sia dei più anziani, che assistono delusi ad un sogno infranto che non hanno più tempo di inseguire, è messo a rischio il livello di tutela dei diritti dei cittadini.
E’ un momento difficile per ogni professione liberale, ma non tutte le professioni sono uguali.
Con orgoglio, va detto che l’avvocatura contribuisce all’amministrazione della giustizia e, di conseguenza, al monitoraggio della democrazia nel Paese.
Quanto alle cause, la pandemia ancora in atto ha fatto deflagrare le conseguenze degli errori enormi ed orbi del passato, i quali, in buona parte, sono motivati dal disconoscere la specificità della professione forense, che, come detto, è utile ad espandere i diritti e il livello di democrazia, per privilegiare al contrario una concezione esclusivamente mercantilistica ed economicistica dell’avvocato.
In questo contesto, tra l’altro, si inseriscono quelle assurdità come le società per azioni con socio esterno, il tirocinio ridotto e dequalificante, l’abolizione dei riferimenti tariffari, l’altalenante balbettio sulle specializzazioni con il conseguente, ulteriore ritardo di innesto nel mondo del lavoro sempre più esigente quanto a competenze altamente qualificate in settori sempre più specifici, l’assoluto iato (è assurdo ma è ancora- ancora!- così) tra università e foro.
Si aggiunga l’incertezza economica, l’immediato peso fiscale, l’incognita previdenziale, la mancanza di difesa del professionista nei confronti degli enti che impongono tariffe ben al di sotto del decoro e della dignità, le liquidazioni dei magistrati in totale dispregio della legge, la despazializzazione digitale della giustizia e l’obiettivo della fuga dall’avvocatura è presto che raggiunto.
Non è qui il caso, con queste poche e modeste righe, di disegnare soluzioni.
Ma un altro dato va riportato.
Tra i laureati, a un anno dal conseguimento dal titolo, è vicina all’80% la percentuale di quelli che non lavorano, e più della metà è convinta di non riuscire a trovare occupazione. Dopo tre anni dal termine del ciclo di studi universitari, solamente poco più della metà ha trovato impiego.
Questo fa dire che- deve far dire che, impone di dire che- l’avvocatura se non è ferma, quantomeno ha rallentato perigliosamente.
Con essa rallentano i diritti, il diritto e la possibilità del singolo di non farsi giustizia da sé e la tutela del singolo di non subire impunemente la violenza e la prevaricazione del più forte.
D’altra parte, ricordo che Kafka fece raffigurare al pittore Titorelli la giustizia sotto forma di dea della caccia, per esaltarne l’immagine della crudeltà animale e della sua voracità.
Kafka aveva in mente una giustizia incomprensibile perché non abitata da avvocati.