Giuseppe Amorelli
(avvocato – scrittore)
Il problema da risolvere è la riduzione dei tempi della Giustizia Civile. Occorre infatti dare, in tempi ragionevoli, una risposta certa e adeguata alla domanda di giustizia .
All’inaugurazione dell’anno giudiziario, il Primo Presidente della Cassazione, Pietro Curzio , nell’affrontare il tema della riforma della giustizia civile, ha invocato l’intervento del legislatore «per prevenire la sopravvenienza di un numero patologico di ricorsi, mediante forme di risposta differenziate rispetto a quelle tradizionali in grado di giungere alla definizione del conflitto senza percorrere necessariamente i tre gradi di giurisdizione». In questa prospettiva il Presidente Curzio ritiene che in ambito civile debba essere valorizzata la mediazione «nelle sue molteplici potenzialità», Si individua dunque un sistema costituito da strumenti di “risoluzione extra-giudiziale”, per dare una soluzione ai ritardi del sistema giudiziario alle domanda di giustizia che promana dai cittadini e dalle imprese. Ovvero si percorre la strada di rafforzare gli strumenti alternativi di risoluzione delle controversie rendendoli effettivamente preferibili all’azione giudiziaria.
Ma nel testo dell’art. 111 si parla di “giusto processo regolato dalla legge”, di svolgimento del processo “nel contraddittorio delle parti in condizioni di parità”, di “giudice terzo ed imparziale”, di sua ragionevole durata Giusto processo è stato anche interpretato come sinonimo di processo corretto.
La riforma della giustizia civile non la si realizza . prevedendo e rafforzando strumenti alternativi al processo, ponendo in essere una sorta di “giurisdizione volontaria” o addirittura una rinuncia alla giurisdizione o intervenendo con modifiche tecniche di natura procedurale, ma la si realizza efficacemente intervenendo precipuamente sulle questioni strutturali, sui i mezzi. sulla organizzazione. La riforma deve riguardare e prevedere congrue e adeguate risorse umane e tecniche necessarie affinchè un processo possa celebrarsi nel rispetto delle garanzie costituzionali . Il cittadino che entra in un tribunale ha diritto di sapere quali sono le regole con le quali viene giudicato, e questo è quello che prevede la stessa nostra carta costituzionale, laddove sancisce che il processo deve essere regolato dalla legge, e che tutti devono essere trattati allo stesso modo, con garanzie di contraddittorio e difesa predeterminate e non riconosciute fattispecie per fattispecie, e se del caso, dal giudice (artt. 3, 24 e 111 Cost.).
Il legislatore, negli anni, ha pensato di risolvere il problema delle lungaggini del processo civile introducendo un sistema di norme di preclusioni. Tale sistema di norme di preclusione era stato già un obiettivo del codice di procedura civile del 1942, ma fu proprio l’Avvocatura di quel tempo, con a capo Piero Calamandrei che con la novella del 1950 lo spazzo via. Oggi l’avvocatura è rimasta silente, inerme, di fronte gli innumerevoli interventi legislativi che hanno dilaniato il codice di procedura civile senza ottenere il risultato prefissato, ridurre i tempi del processo, ma mettendo in pericolo i diritti delle parti, ovvero dei cittadini. In una logica di sbilanciamento dei rapporti che sempre si erano invece dati nella giustizia civile, le riforme degli ultimi venti anni hanno trasformato la natura del processo civile.
Già la riforma del ’90 (legge 353/1990), superando la novella del ’50 (legge 581/1950), reintroduceva le preclusioni, riscrivendo gli artt. 183 e 167 cpc per il primo grado, e l’art. 345 cpc per il grado di appello. Ulteriori restrizioni sono state quelle della soppressione del reclamo avverso le ordinanze istruttorie prima previsto dall’art. 178 cpc, l’istituzione del giudice monocratico in primo grado, con la soppressione delle garanzie del collegio, una nuova riscrittura dell’art. 167 cpc con la riforma del 2005, le restrizioni in punto di eccezione di incompetenza ex art. 38 a seguito della riforma del 2009, la riforma degli artt. 91 e 92 in punto di spese processuali, con l’introduzione del 3° comma dell’art. 96 cpc volto a sanzionare l’abuso del processo.
Nel 1999 viene introdotto nel codice di procedura civile il capo terzo bis, ovvero gli artt. 281 bis e ss., ed in particolare l’art. 281 sexies cpc. Quest’ultima disposizione, come è noto, consente la chiusura del processo in forma semplificata, senza che gli avvocati possano redigere le consuete comparse conclusionali e di replica.
Si è provveduto poi a ridurre tutti i termini processuali, con modifiche degli artt. 50, 305, 307, 327 cpc, come se la riduzione dei termini processuali potesse essere momento di riduzione dei tempi del processo, o di riduzione del lavoro del giudice.
In particolare è stato ridotto il termine lungo per impugnare, e addirittura oggi si pensa ad una riforma che annulli del tutto i termini lunghi, e lasci solo quelli brevi dopo la comunicazione integrale del provvedimento da parte della cancelleria via Pec.
Nel 2009 si è introdotto per la prima volta il processo sommario di cui all’art. 702 bis e ss. cpc, nel quale il giudice «procede nel modo che ritiene più opportuno» e chiude il procedimento con ordinanza.
Nel 2010 è stato approvato il decreto legislativo sulla mediazione quale condizione di procedibilità della domanda, che oggi, in forza dell’art. 5, 2° comma d.lgs 28/2010, consente al giudice di mandare in mediazione le parti contro la loro volontà in ogni controversia, con uno strumento che può essere utilizzato anche solo per rinviare la discussione di merito e/o la decisione della controversia.
Nel 2012 è stato riformato il giudizio di appello, con la riscrittura dell’art. 342 cpc e l’introduzione degli artt. 348 bis e ter cpc, e sempre nel 2012 è stato escluso il controllo in cassazione sulla motivazione con la riscrittura dell’art. 360 n. 5 cpc; infine nel 2016 si è (sostanzialmente) proceduto all’abolizione dell’udienza pubblica in cassazione
In ogni caso va riaffermato che il processo civile serve per l’attuazione dei diritti soggettivi delle parti, non altro, e che tutto ciò deve avvenire sì con regole predeterminate, ma in seno a principi di libertà.
Occorre invece ritornare al passato e recuperare i principi fondati del processo civile .Ogni legge processuale deve rappresentare il punto di equilibrio fra due esigenze che in ogni campo dell’attività umana assai volte si trovano in conflitto, il presto e il bene: l’esigenza di una decisione pronta, e l’esigenza, spesso contrastante, di una decisione giusta. Tra queste due esigenze, la concezione pubblicistica del processo porta naturalmente a dare la prevalenza alla seconda. Cosi si esprimeva Piero Calamandrei, un principio ancora oggi valido e al quale bisogna attenersi- Piero Calamandrei sostiene che, seppur le regole del processo non siano altro che «massime di logica e di buon senso», è tuttavia coessenziale ad un sistema democratico che queste vengano espressamente codificate, e che l’intero procedimento sia, in ogni suo aspetto e momento, regolato dalla legge. La ragione è evidente: così come il diritto sostanziale deve essere eguale per tutti, allo stesso modo deve essere il diritto processuale; e il diritto processuale riesce ad essere effettivamente e concretamente eguale per tutti solo se il processo non è rimesso alla libertà delle parti o alla discrezionalità del giudice.
Tutta la storia del processo, dalle formulae del diritto romano, alle positiones del diritto comune, dagli statuti italiani alle coutumes francesi, è, in sostanza, fino a giungere alle codificazioni, la storia della trasformazione della pratica giudiziaria in diritto processuale…Allora, se si vuol dar credito alla sentenza dei giudici, si cominciano a cercare nei meccanismi sempre più precisi della procedura le garanzie per assicurare che essa sia in ogni caso il prodotto, non dell’arbitrio, ma della ragione»
Costituisce infatti irrinunciabile garanzia di civiltà quella di poter conoscere previamente le modalità di svolgimento dell’attività giurisdizionale (il c.d. giusto processo regolato dalla legge), di modo che ogni cittadino possa far conto, quando vaglia la soglia di un’aula di giustizia, proprio su quello svolgimento, senza sorprese e senza incognite.Se la legge rinuncia invece a regolare il processo, e rimettere ogni regola processuale alla sola discrezionalità del giudice, la conseguenza è quella di giungere alla «abolizione del diritto stesso, almeno in quanto l’idea del diritto si riconnette alla garanzia di certezza e eguaglianza, conquista insopprimibile della civiltà» Cosi ancora Calamandrei, nell’ Abolizione del processo civile, Riv. Dir. proc., 1939, I, 386.
Si tratta di sottolineare che se la cognizione del processo procede a discrezione del giudice, la parte non ha più alcuna garanzia circa il diritto alla difesa, al contraddittorio e alla prova, perché non ha alcuna garanzia che contro di lui non si creino a sorpresa preclusioni che non sono previste nel codice, non ha (soprattutto l’attore ricorrente) garanzie circa la possibilità, i tempi e i modi di coinvolgere nel processo soggetti terzi, o di proporre controdomande, non ha più garanzia di poter scrivere memorie istruttorie e aver tempo e possibilità di controdedurre mezzi di prova, non ha garanzie circa i tempi di produzione dei documenti, non ha garanzie circa la possibilità di depositare comparse conclusionali o altri scritti difensionali.
Al contrario, si ritiene oggi che tutto debba passare attraverso il potere discrezionale del giudice, si ritiene debba essere il giudice l’artefice delle norme processuali, e si ritiene altresì che oggetto del processo, in massima parte, non siano i diritti soggettivi dei litiganti ma la volontà oggettiva delle leggi.
L’avvocatura quindi, in primo luogo è chiamata a questa “giusta battaglia di civiltà” in difesa dei diritti inviolabili del cittadino, in difesa quindi dei principi democratici sanciti dalla nostra Carta costituzionale. La riforma del processo civile si attua potenziando le risorse umane e tecniche quindi in senso strutturale del sistema, adeguandolo alla domanda di giustizia che promana dai cittadini.