Aldo Bianchini
SALERNO – Non sono un avvocato e non ho neppure la cultura necessaria per dare lezioni a chicchessia; dunque non conosco i termini in cui e con cui un avvocato deve svolgere la sua nobile professione che è e rimane una delle attività lavorative più belle e appaganti al mondo.
In forza della mia lunga esperienza di cronista giudiziario so per certo che non mi piacciono gli avvocati del tipo impiegati statali (senza nulla togliere a costoro), così come non mi piacciono gli avvocati che nell’ottica di una falsa e deviante concezione della professione devono difendere a tutti i costi anche gli indifendibili andando alla ricerca di cavilli e di piegature burocratiche attraverso cui arrivare all’immobilizzazione della giustizia.
Per quanto mi riguarda l’avvocato deve certamente difendere a spada tratta il suo assistito e deve insinuarsi i n ogni piega burocratica, ma lo deve fare soltanto quando l’avvocato ha la piena coscienza di quello che fa sulla base di un bagaglio cognitivo sulle possibili capacità del suo assistito di rendergli visibile e credibile tutto ciò che nel profondo del suo animo; in pratica l’avvocato deve essere capace di entrare nell’animus confidenti del suo assistito per essere sicuro che la sua difesa risponda alla verità, tutta le verità, nient’altro che la verità.
Per fare questo bisogna, però, essere avvocato-avvocato; e questa specie è molto, ma molto rara,
Certo il tutto non lo si può pretendere da un giovane avvocato che ha bisogno di guadagnare per sopravvivere in un campo sterminato di leoni alla stato brado; ma sicuramente ogni suo avanzamento professionale dovrebbe essere guidato da quello stesso spirito che dovrebbe animare i medici nell’ottica del giuramento di Ippocrate.
L’avvocato penalista salernitano Antonio Calabrese appartiene alla razza sopra descritta e i fatti parlano tutti in suo favore.
Nel giro di poche settimane ha messo a segno due colpi da manuale; il primo con l’assoluzione con formula piena del maresciallo dei Carabinieri Alfonso Bolognesi, accusato di camorra con i casalesi, dopo dodici anni di processi, condanne, assoluzioni, ricorsi, revisioni e la parola finale; il secondo colpo qualche giorno fa con l’ottenimento per il suo assistito Marcello Saggese (in passato esponente della criminalità organizzata paganese) della revoca della libertà vigilata concessagli, tempo fa, in forza della sua ineccepibile condotta carceraria e per il suo volontario ed efficace apporto nel servizio del 118 in favore degli infermi.
Il caso Saggese è, di per se, un fiore all’occhiello della carriera forense di Antonio Calabrese già costellata, del resto, da numerosissimi successi.
Ma in questo caso l’avv. Calabrese è andato oltre in quanto aveva di fronte a se, da un lato un soggetto criminale ritenuto pericolosissimo (per via della sua vicinanza ai clan malavitosi paganesi e, soprattutto, alla Nuova Famiglia) che aveva scontato 20 anni di carcere per omicidio ed altri reati ed era stato liberato a fine pena con l’applicazione della “libertà vigilata”, e dall’altro lato un Tribunale che si muoveva nelle sue decisioni tenendo conto esclusivamente del corposo curriculum criminale di Saggese.
Calabrese è andato oltre perché è riuscito prima ad entrare nell’animus confidenti del suo assistito, poi ad aver acquisito sicura coscienza del suo totale cambiamento anche dopo aver riconquistato la libertà, ed infine a trasmettere queste sue convinzioni al collegio di giudizio della Suprema Corte che ha, con alcune osservazioni, indicato la via maestra al collegio del Tribunale di Sorveglianza di Salerno, presieduto dal giudice Amirante, per decidere la definitiva revoca della libertà vigilata.
Una difesa eccellente, da avvocato-avvocato.