Il cibo per antonomasia è da sempre territoriale, perché confinato alle risorse di un area, di un luogo, di un territorio.
I piatti locali, legati alle materie prime del territorio, esistono da tempo , Archestrato di Gela enumerava già nel IV secolo a.C. le specie ittiche del Mediterraneo e, durante il periodo rinascimentale, Ortensio Lando descriveva nel Commentario delle più notabili e mostruose cose d’Italia e altri luoghi le specialità culinarie di varie città e regioni italiane.
La cucina romana è celebrata non tanto perché sulle tavole comparivano questo o quel pesce, ma come un grande mercato dove esisteva una varietà d’offerta la più ampia possibile che supera il territorio per dimostrare la propria influenza, il proprio potere imperiale. Come per i prodotti tipici lo stesso vale per le pietanze.
Legate da sempre alle risorse del territorio e alle tradizioni popolari, si mescolano, si confondono fra loro raccogliendole tutte assieme in una sorta di cucina globale.
E’ solo verso il 1475 che il Maestro Martino da Como, chef del Camerlengo e patriarca di Aquileia, autore del libro De Arte Coquinaria, elenca nel suo ricettario i cavoli alla romanesca o le ova alla fiorentina, battesimi di fantasia e creatività spesso non legate a vere e proprie ricette regionali, come il caso della torta bolognese, composizione che racchiude fra due dischi di crosta, un impasto di erbe, uova e pecorino fresco, che è invece la torta cappuccina, vanto della cucina genovese. Il termine genovese sarà l’appellativo regionale usato anche per il classico condimento partenopeo con un nome ancor oggi molto vago se nella città della Lanterna non è per nulla conosciuto. O il caso dei friarelli, peperoncini verdi da friggere, che nelle storpiature gastronomiche salernitane diventano friarielli identificandosi con i broccoletti da cime di rapa napoletani.
Sarà solo nel 1891 col ricettario di Pellegrino Artusi, la scienza in cucina e l’arte del mangiar bene, che per la prima volta si parla di cucine regionali e locali, spesso inventate ed adattate al gusto medio che lo stesso libro contribuisce a creare. Ed è in questa dimensione locale che si fa forza la cucina italiana, con regole nazionali differenti fra area e area, dove il gusto della cucina del territorio diventa espressione di ricerca di nuovi sapori e saperi gastronomici.
Va da sé che la cucina del territorio è il risultato del periodo dell’industrializzazione e, paradossalmente l’avvio dell’internazionalizzazione dei gusti, l’omologazione europea dei modelli alimentari, è la causa principale del suo contrario, una perfetta reazione della nuova attenzione sulla cucina territoriale.
Nel momento in cui la cucina si restringe in un’area, in uno spazio, chiunque può occuparlo: dal ricco al povero, dal signore al contadino. Privilegiando i prodotti tipici, i cibi legati al territorio, i sapori originali, non si soffre di nostalgia, ma si guarda soprattutto al presente e alla gastronomia del futuro. La globalizzazione non sostituisce le diversità, ma le accentua, dando nuovi significati alle identità alimentari territoriali che non si contrappongono alle altre, ma al contrario convivono con esse.
L’Italia è una nazione dalle buone cucine regionali e spesso si osserva come i menù casalinghi siano più vari e raffinati di quelli standard proposti ai turisti, ai visitatori, ai villeggianti.
Si può parlare di cucina salernitana perché può vantare qualità ed abbondanza delle materie prime e, nonostante profonde trasformazioni, rimane ancora un insieme di fantasiosa molteplicità dei piatti della cucina del territorio, affiancata alla grande diversità dei vini è l’elemento centrale di un insieme di piatti, sapori, valori rituali che, pur attraversando diversi secoli, non hanno perso la loro identità. Pesci, carni, frutta, verdura, ortaggi, pane, pasta, olio, formaggi, dolci, vini sono prodotti di alta qualità, punto di forza dell’economia salernitana, un settore nel quale non si deve assolutamente inventare nulla.
Una miscela di sapori contro l’analfabetismo di ritorno imperante di naso, gola e pancia di una comunità che sembra vergognarsi, invece di andare orgogliosa, delle proprie origini contadine.