Ing. Paolo Biancamano
SASSANO (SA) – Da tempo alcune considerazioni sull’”appartenenza”, ed in particolare “il senso di appartenenza di un individuo ad un territorio”, affollano la mia testa, così ho deciso di scrivere questi pensieri, se mai qualcuno avrà voglia di leggerli, o magari li rileggerò io stesso tra qualche tempo.
La proprietà “Appartenenza” (dal latino medievale “appertinentia”, cit. Treccani) in matematica esprime un concetto per il quale un elemento “appartiene” ad un insieme quando esso è “compreso” al suo interno. Pertanto, trasportando tale concetto alle relazioni individuo-territorio, si può senz’altro dire che un individuo appartiene ad un luogo se esso stesso ne è “compreso”. Ma il termine “compreso” può rinviare a più significati: da un lato “comprendere”, nel significato dato da Dante, cioè “accogliere, racchiudere”, dall’altro un significato più moderno, cioè “capire”. Quindi, accogliendo entrambi i significati, si potrebbe dire che per appartenere ad un luogo bisogna non solo esserne all’interno (quindi abitare quel luogo), ma anche esserne “capiti”. Forse, proprio su questo significato comincia a vacillare il senso di “appartenenza”, perché in fondo nessuno può sentirsi “capito” pienamente in un luogo, o meglio da chi “costituisce” il luogo (qui poi ci sarebbe da affrontare la relazione tra territorio e comunità, spazio e luogo, che grazie al compianto Prof. Sichenze ha assunto un significato più completo che magari affronterò in altra sede).
Pertanto, se non si appartiene pienamente ad un territorio, alla sua comunità e quindi al luogo, pur abitandolo, magari si può appartenere ad altro, perché per quella parte che non si è “capiti” in un luogo lo si è in un altro. In un’epoca come questa che ha reso “fluido” il significato di luogo, non è detto che si appartiene solo al luogo in cui si abita, o meglio, non è detto che il senso di appartenenza sia solo “localizzabile” con un territorio (spazio fisico), ma magari si appartiene anche ad un luogo figurato e/o comunità come quelle che nell’era di internet si sono create sui social.
Pertanto fin qui, avendo parlato in generale, un po’ tutti si possono riconoscere in qualche comunità, o magari in più di una contemporaneamente. A tali considerazioni se ne potrebbero aggiungere molte altre, ma si perderebbe il filo del discorso iniziale, cioè quello del rapporto appartenenza-territorio.
Quindi, analizzando anche fattori ed esperienze personali, mi piacerebbe portare alla luce alcune considerazioni che meritano (penso) di essere condivise e magari aprire un dibattito serio e costruttivo.
Senza girarci intorno, soprattutto a causa dei costanti cambiamenti abitativi a cui le mie esperienze di studio, di ricerca e professionali mi hanno sottoposto (Sassano/Vallo di Diano, Potenza, Roma, Maratea, Napoli, Firenze, per citare solo le zone principali dove ho vissuto più o meno stabilmente), mi sono chiesto più volte a quale territorio/luogo rivolgere maggiormente il mio senso di appartenenza.
La risposta più ovvia che si è formata nella mia testa è stata “dove sono nato”, cioè il Vallo di Diano. E sicuramente fino a pochi anni fa questa risposta, ovunque io fossi nel mondo, sarebbe stata immutabile. Tanto è vero che alla vigilia di metter su famiglia, l’unico obiettivo è stato quello di costruire il futuro proprio nel mio paese di nascita, Sassano, nonostante le numerose offerte lavorative da altre parti d’Italia e rispetto all’evidente lontananza geografica con il mio mondo professionale/di ricerca (Napoli in primis). E questo poteva essere letto proprio quale personale “senso di appartenenza” al territorio di origine.
Ma ad un certo punto questa “appartenenza” è venuta meno, o meglio è stata messa in discussione, proprio quando ho cominciato ad abitare il “mio” territorio ed ho provato a cercare anche professionalmente una certa stabilità in zona. Di fatti il momento preciso in cui davvero mi sono accorto che il luogo in cui vivevo non “mi apparteneva” (ed io non appartengo ad esso) è stato quando ho subito direttamente quella che considero a tutti gli effetti un’ingiustizia: l’esclusione da un pubblico concorso, bandito proprio nel mio comune di origine (e per il quale, pare, era già stato individuato un vincitore). Esclusione per altro malamente motivata e totalmente discrezionale con evidenti violazioni in merito all’abuso di ufficio (spero un giorno se ne occupi la giustizia). In altri termini, quando ho provato a partecipare ad un concorso, al quale secondo qualcuno non avrei dovuto partecipare, sono stato escluso, non tanto per evitare una possibile vittoria, ma soprattutto, per dimostrare una superiorità “istituzionale” (“Io so io, e voi non siete un caz*o” avrebbe detto il Marchese del Grillo). Non che fosse la prima ingiustizia alla quale ho assistito, ma sicuramente la più esplicita (e vigliacca aggiungerei).
Un episodio che mi ha fatto toccare con mano quanto alcune dinamiche siano infime e addentrate nei meccanismi istituzionali, “oleano” gli ingranaggi burocratici che invece dovrebbero essere quanto più possibilmente imparziali. Ad un tratto si è palesata davanti ai miei occhi una nuova realtà fatta di “piaceri” personali, “leccaculismo” (passatemi il termine), raccomandazioni varie ed eventuali, dove se non “ti pieghi” non puoi ambire ad alcunché, ma sei destinato a restare al tuo posto (sebbene il “tuo posto” sia nettamente migliore di quello per cui si ambisce, e direi per fortuna a questo punto). Un meccanismo che qualcuno in passato ha definito addirittura di “stampo mafioso”, e fa ridere se si pensa che proprio il luogo di cui si sta parlando sia stato eletto a “Paese della Legalità”.
Ma lasciando le facili battute, questo episodio mi ha permesso di approfondire la conoscenza di un intero sistema fin troppo addentrato nei meandri del rapporto luogo-territorio-comunità, determinando in me una considerazione ancora più profonda: l’ingenuità con la quale leggevo il territorio. Infatti mi sono reso conto come nella maggioranza dei casi quando qualcuno ha provato a fare qualcosa per questi luoghi (e credetemi io ci ho provato tante volte), anche le idee e azioni più innovative, se non piegate alle logiche di alcuni, sono state “rimbalzate” da un muro invisibile ed impenetrabile, un muro costruito con modus operandi clientelari, invidia sociale, spirito di negazione, idee conservatrici, che da sempre hanno connotato, e continuano a connotare, un po’ tutti i territori del mezzogiorno, determinandone anche una certa arretratezza rispetto ad altre realtà (la stessa negazione di questa arretratezza da parte di alcuni ne dimostra l’esistenza). Tali dinamiche purtroppo vengono confermate ad ogni “giro di giostra”, a prescindere dai “giostrai” (citazione per i cinefili). E se prima avrei potuto pensare che forse era solo una questione di essere “compresi” dal/nel territorio-comunità, adesso so per certo che non è cosi ed il paradosso è che il luogo a cui credevo di appartenere (anche in parte) in realtà non è quello che pensavo, ma per di più non lo è mai stato, lasciando in me un forte senso di smarrimento (lo stesso smarrimento di chi, per gli stessi motivi, è stato costretto ad andare via, perdendo così quel senso di “appartenenza”).
Sia beninteso che la disillusione dalla mia precedente visione fin troppo ingenua (saranno stati i principi morali con i quali sono stato cresciuto, per fortuna) era facilmente prevedibile, ma non vedere all’orizzonte nessun possibile cambiamento lascia sgomenti, e forse anche impauriti di fronte a tanto marciume morale. Accettare come dato di fatto incontrovertibile queste dinamiche, e anzi porle proprio alla base di quel senso di appartenenza al territorio, denota una comunità che ormai si è arresa e che preferisce “espellere i propri figli” piuttosto che “accoglierli” e “comprenderli”.
Per finire, se oggi qualcuno mi chiedesse a quale territorio appartengo sicuramente risponderei “non lo so, ma sicuramente vorrei appartenere ad un luogo privo di ingiustizie”.
Chiudo con una foto che ho scattato a Sassano di cui sono orgoglioso e che forse rappresenta un’ultima speranza per quel senso di appartenenza non del tutto perduto