Angelo Giubileo
(Avvocato – Scrittore)
E’ in circolazione dall’1 gennaio 2002; un tempo senz’altro sufficiente per redigere un bilancio, ma, ancor più, prefigurarne possibili sviluppi o è meglio dire scenari futuri. Si tratta dell’euro, moneta oggi adottata da 19 paesi europei tra cui l’Italia e viceversa mai adottata in Gran Bretagna, che, come sappiamo, è uscita dall’accordo, attualmente a 27 membri, dell’Unione europea già al termine del 31 gennaio di quest’anno, dopo lunghi negoziati avviati il 19 giugno 2017.
In 18 anni, abbiamo assistito a due gravi crisi finanziarie della moneta unica: la prima, derivata dalla crisi dei mutui subprime statunitensi; la seconda, attualmente in corso, aggravata dalla crisi sanitaria da Covid19, ma derivante anch’essa, nello specifico, da una manovra finanziaria di più ampio respiro internazionale concernente la politica commerciale dei dazi statunitensi.
Due crisi, che hanno generato gravi effetti finanziari per l’Europa, ma che hanno gravato sugli assetti del potere europeo non per colpa della politica statunitense, bensì per colpa della stessa debolezza politica e finanziaria dell’Unione europea. Dopo aver inizialmente negato una politica economica di allentamento dei vincoli di bilancio e conseguente ampliamento della liquidità, in occasione della crisi greca di debito pubblico del 2009, a seguito delle altrettante crisi di debito pubblico che si sono susseguite da allora negli altri paesi membri – e in particolare in Portogallo, Irlanda, Spagna e Italia – la scelta politica dell’Unione europea, unica, è stata determinata in esclusiva dalla Bce di Mario Draghi, ed è stata quella del quantitative easing, e cioè un aumento della moneta a debito in circolazione.
In 18 anni, a parte una politica, alternata, di restringimento o allentamento dei vincoli monetari, né un’unione monetaria capace di coinvolgere paesi come l’intero Regno Unito, né un’unione bancaria, né naturalmente un’unione fiscale a sostegno di un progetto europeo finora concretizzatosi nel funzionamento di un’area di circolazione ed essenzialmente di mercato più vasta. Da circa tre anni, a seguito della Brexit, questo progetto non solo è stato bloccato ma rischia anche di fallire, essenzialmente perché la ricchezza di un’area e di un paese, in questo caso membro di un’unione più vasta, non è la sua moneta ma la sua produttività. E in ciò, non c’è dubbio che l’Unione europea, se non ha già fallito, ha senz’altro deluso. In quanto legata soprattutto allo sviluppo e al traino dell’economia cinese; un’economia che, in un periodo medio, ha generato in Europa anche significativi fenomeni di dumping sociale, diffusi in zone ristrette, a macchia di leopardo.
E quindi, cosa aspettarci? Politicamente, s’intende, innanzitutto l’esito dell’elezione presidenziale statunitense del prossimo 4 novembre. Non a caso, infatti, i ministri finanziari dell’Unione europea, riunitisi ieri per la prima volta dopo la crisi della pandemia, hanno dichiarato: “Ci aspettiamo che la maggior parte degli Stati membri non raggiunga i livelli di Pil precedenti alla crisi (pandemica) prima della fine del 2021”. E cioè: un anno circa di tempo, necessario affinché il potere politico ed economico degli USA orienti anche le scelte politiche dell’Unione europea e dei suoi paesi membri. E’ questa la via maestra, dato che ciò che lega l’Europa agli USA e gli USA all’Europa, oltre che la storia, sono i valori della civiltà occidentale. God Bless America.