di Cecchino Cacciatore
(avvocato penalista e cassazioni sta)
I tribunali riaprono lentamente, progressivamente.
C’è da essere contenti?
No!
Contenti no, sollevati si. Ma contenti no, proprio no.
Come si fa ad essere contenti che la Giustizia riprenda il suo corso, dopo che un irrazionale editto ne ha decretato il fermo, espungendola dal suo ruolo fondamentale di mediatrice dei conflitti di una società.
Chiariamo.
Si è combattuto tra la vita e la morte, le cui sembianze orrende hanno assunto i volti di una infezione armata di falce sul cui filo di lama scorreva l’insidia di un virus che ha costretto ad allontanare l’uomo dall’uomo.
Chi lo nega è matto.
Però…
Però, la Giustizia (nel suo complesso) è dalla Costituzione prevista al titolo quarto quale parte dell’Ordinamento della Repubblica, al pari del Parlamento, del Governo e degli Enti locali.
Dunque, con grave squilibrio, la Giustizia è stata espunta (momentaneamente), come una incidentale di cui si possa fare a meno, tanto il periodo fila lo stesso, dal controbilanciamento reciproco dei poteri dello Stato.
E con essa la difesa legale dei cittadini.
Noi, da parte nostra, lo abbiamo detto sin da subito.
Suggerendo soluzioni alternative, misure diverse, un opposto atteggiamento culturale; pur nel contemperamento con le sacrosante esigenze sanitarie, individuali e collettive.
Ma gli uccellatori della pania del populismo ci hanno provato di nuovo.
Con due maldestri tentativi: primo, la smaterializzazione del processo, con l’assurdità connivente più col faceto che col serio del processo da remoto: secondo, la cacciata degli avvocati dal palazzo, rendendone impossibile l’accesso e farsesche le richieste di prenotazioni, tanto così avaramente dispensate, quasi nemmeno il più lussuoso dei ristoranti.
Quindi, cosa c’è da essere contenti? Siamo sollevati, questo si.
Infatti, noialtri abbiamo lottato, urlato, chiesto, scritto e denunciato perché avvertiti dalla grave emergenza democratica: un’intera categoria professionale (di rilevanza costituzionale) mortificata, i diritti delle parti affidati alle nebulose del limbo della relatività del tempo.
Alla fine abbiamo vinto.
Abbiamo sventato il pericolo del processo da remoto, dimostrandone il pallore che si appartiene ad ogni simulacro dell’originale.
Abbiamo sottolineato che lo smart working di massa confonde, come nelle notti più buie, le luci e le ombre di chi è rimasto al lavoro e di chi si è dato.
Lo abbiamo fatto con moderazione e senza esibizionismi, ma con fermezza e pertinacia.
Collaborando con le autorità giudiziarie, ottenendo a mano a mano condizioni ed aperture per rendere più agevole la nostra quotidianità professionale.
Trovando ascolto nel massimo possibile del consentito dall’editto nazionale, con il rispetto che ci siamo meritati per l’autorevolezza e la concretezza dei nostri apporti.
Ma adesso basta. Parte che sia finita, prima del previsto a che grazie a noi.
Finalmente, il ministro che inciampa nella differenza tra dolo e colpa, si è visto costretto ad ascoltare l’avvocatura, i Consigli dell’Ordine, il nostro, che non ha mancato di mandargliene a dire quattro, spesso e volentieri.
Resta un’amarezza.
Ancora un’occasione persa.
Quella di abbandonare l’infantilismo dell’attuale sistema giustizia immutato in favore invece della freschezza della modernità per sperare in un futuro di maturità tra il nuovo tecnologico che avanza e le garanzie della tradizione del Giusto Processo.
Con l’avvocato al centro.