IL “MIO” PROCESSO TORTORA (V PARTE)

Avv. Giovanni Falci

(penalista – cassazioni sta)

Drammatico confronto in aula tra Enzo Tortora e Giovanni Melluso - al centro del banco degli avvocati, in prima fila, l'avv. Giovanni Falci con giacca chiara

SALERNO – Il processo, per l’elevato numero di imputati, fu celebrato in tempi sicuramente ragionevoli così come prescrive la Convenzione dei Diritti dell’Uomo e, oggi, anche la nostra Costituzione.

In effetti un processo che inizia a febbraio 1985 e si conclude con la sentenza il 17 settembre di quello stesso anno, può sicuramente dirsi celebrato in tempi celeri.

Il processo, comunque, nonostante il numero degli imputati, era abbastanza semplice, anche se presentava un profilo di semi novità: le accuse dei “pentiti”.

In realtà il fenomeno non era del tutto nuovo al nostro ordinamento.

C’era stata di recente la stagione del terrorismo che aveva inaugurato questa “tecnica” investigativa di ricorrere alle c.d. “voci di dentro” per riuscire a debellare queste bande armate eversive.

Erano venuti fuori perciò le categorie dei brigatisti c.d. “dissociati”, “pentiti” e “irriducibili”. Si trattava di ottenere collaborazione da chi faceva parte delle brigate rosse o di altri gruppi di tipo eversivo in cambio di sconti di pena e di trattamenti penitenziari differenziati rispetto agli altri condannati ; era iniziata la c.d. legislazione premiale.

In particolare per i brigatisti, i dissociati erano coloro che si dichiaravano fuori dalla banda ma non intendevano accusare nessuno, si limitavano a confessare la loro partecipazione al reato; i pentiti erano quelli che oltre a confessare operavano quelle che in termine tecnico si chiama la chiamata in correità, in parole povere, accusavano i loro concorrenti nel reato; gli irriducibili, come è facile capire dal termine, erano quelli che non confessavano e non si dichiaravano fuori dalla banda.

Il fatto che differenziava, però, i pentiti di camorra da quelli terroristi era che la legislazione premiale era stata, all’epoca, prevista solo per questi ultimi e non si poteva estendere anche ai primi.

Inoltre i “premi” i terroristi dovevano meritarseli sul campo facendo compiere operazioni di polizia che assestavano duri colpi alla organizzazione a cui appartenevano; bisognava far trovare le armi, fare scoprire i covi, contribuire ad operazioni in corso (il famoso rapimento del generale Dozier il cui covo con la conseguente liberazione del prigioniero venne fatta su delazioni di un brigatista).

Giovanni Pandico - il pentito, grande accusatore di Tortora

Bisognava, cioè, fornire quello che la legge indicava con il termine di “concreto contributo alle indagini” in itinere e l’accusa non doveva limitarsi a dare la prova solo di fatti già commessi.

Quei pentiti di camorra del 1983 non hanno mai detto, per esempio, dove si trovavano i capitali che queste bande accumulavano con i loro traffici illeciti, oppure dove si trovavano le armi con le quali si eseguivano gli omicidi.

Avvenne perciò che nel processo Tortora e in quelli che avevano ad oggetto le associazioni mafiose, ci fu una applicazione di “premi” per i pentiti non previsti da nessuna legislazione, diciamo che la cosa si fece “alla buona”.

Apprendemmo, infatti, nel corso di quel processo cose inaudite sulla gestione di questi pentiti. A mo’ di esempio si è saputo dal pentito Mario Incarnato che la caserma dei carabinieri Pastrengo di Napoli dove venivano interrogati i pentiti e ivi trattenuti senza fare rientro in carcere, era denominata l'”Hotel Pastrengo” per i privilegi concessi ai detenuti che “collaboravano” con la giustizia.

Si raccontava che si pasteggiava a champagne e che c’era la possibilità di incontrare donne con cui fare sesso.

Nella sentenza emessa sul terzo troncone di questa stessa indagine, su questa “trattativa” segreta, o quantomeno non documentata, i giudici di Napoli hanno testualmente scritto, con riguardo a Pasquale Barra uno dei pentiti che accusava P.A.: ”Pertanto, avendo preso (il Barra) impegno con i magistrati
inquirenti a fornire un grosso contributo, al fine di sperare di
continuare a rimanere fuori di un certo circuito carcerario (…) questa spinta
egoistica, deve aver influito al massimo nell’indurlo a ritenere che
tanti personaggi periferici, conosciuti in carcere, giudicabili o in
espiazione pena, toccati marginalmente dalla rete d’influenza della
N.C.O., ne fossero entrati a far parte, ne dovessero far parte
”.

La cosa, perciò, non era un semplice pettegolezzo tra avvocati, era un dato processuale certo atteso che venne utilizzato anche nelle sentenze, e, quindi, per questa strada, divenne fatto accertato.

Per quanto riguarda questo e anche gli altri accusatori dei miei clienti (P.A.) al quadrato, c’è da dire che l’interrogatorio in aula dei loro accusatori fu praticamente inutile.

Tutti si limitarono a rispondere alla domanda del Presidente che gli chiedeva cosa avessero da dire sulla associazione per delinquere denominata NCO e sulle accuse mosse nella fase istruttoria: “non confermo e non smentisco quanto dichiarato ai Carabinieri e ai Giudici”.

Giovanni Melluso - detto "Gianni il bello" dietro le sbarre

Praticamente, era impossibile esercitare il diritto di difendere il proprio assistito instaurando un contraddittorio con l’accusa.

In effetti, il sistema processuale di allora prevedeva una cosa del genere che, sorvolando completamente sulla funzione dell’avvocato, riduceva il processo a un fatto interno alla magistratura.

P.M. e G.I. svolgevano l’indagine in assenza della difesa, raccoglievano le prove senza intervento degli avvocati e poi passavano il tutto al tribunale. Questo, in caso di deposizioni come quelle innanzi indicate e cioè “non confermo e non smentisco”, si ritirava in camera di consiglio ed emetteva la sentenza.

In casi come questo, cioè, si trattava di far giudicare a dei Giudici il lavoro di altri Giudici senza che la Difesa potesse intervenire; intendiamoci, era perfettamente lecito e regolare che un imputato potesse essere condannato e, perché no, assolto, senza che potesse in qualche modo contribuire alla ricostruzione dei fatti; era come se la causa si potesse svolgere anche senza l’avvocato perché, quello che arrivava sul tavolo in camera di consiglio, era tutto “materiale probatorio” nel quale non c’era la mano della difesa.

In casi del genere l’’intervento dell’avvocato era puramente scenografico; l’arringa era il commento di quanto era stato fatto, ma giammai il Giudice avrebbe potuto scrivere in sentenza che assolveva l’imputato per quello che era stato “detto” dalla difesa.

Allora poteva succedere, come successe, che due giudici diversi davano giudizi diversi dello stesso fatto e della stessa fonte.

Così per i Giudici di (P.A.) al quadrato, quelli del I troncone del processo alla NCO “tutte le dichiarazioni del Barra appaiono attendibili, in
particolare quelle relative alla affiliazione (…) alla N.C.O.,
perché logiche, articolate, sorrette da elementi di riscontro e non
contrastate da altre risultanze processuali
“.

Per giudici del III troncone del processo alla NCO, invece, nella motivazione della sentenza, che i principali accusatori di (P.A.) al quadrato, Pasquale Barra e Pasquale D’amico, sono inattendibili.

Pasquale D'Amico - "u' cartunaro"

In particolare, per quanto riguarda le dichiarazioni del Barra sugli affiliati alla N.C.O., queste “non vengono da un quadro di nomi da lui formulato, ma derivano, benché non sia esplicitamente detto a verbale, dal riscontro confermativo che il dissociato dà agli organigrammi, con molta cura e pazienza elaborati almeno un anno prima dai carabinieri del nucleo Napoli 1 e Napoli 2“.

Avevo ragione io, perciò, in quella richiesta che feci alla prima udienza di acquisizione degli interrogatori resi dai pentiti davanti a tutte le A.G. che li avevano interrogati. Ero diventato famoso perché c’era stato il rinvio della udienza del I troncone seguito dal rigetto della richiesta e invece non sarei diventato famoso se (P.A.) al quadrato fossero stati giudicati dal III troncone (senza Enzo Tortora non c’era audience). In questo secondo caso, però, sarebbe stata accolta la mia richiesta che avrebbe contribuito a dimostrare quanto da quei giudici affermato nella sentenza.

Non indicare P.A. tra gli associati dell’agro nocerino sarnese al Giudice di Salerno può solo leggersi se si mette in relazione alla precedente accusa di questa persona fatta ai giudici di Napoli.

Non gli è stato proprio chiesto dai Carabinieri, a Salerno, di P.A. e questo, benché non sia esplicitamente detto a verbale perché non interessava, era stato già arrestato. D’Amico a Salerno si è limitato a fornire il riscontro confermativo che il dissociato dà agli organigrammi.

In parole povere, ma sicuramente più chiare e dirette, il pentito nelle caserme si limitava solo ad “assecondare” l’intelligence investigativa, confermando le intuizioni dei Carabinieri. Tanto non gli costava niente, ed aveva poi, la scappatoia processuale del “non confermo e non smentisco”.

Sta di fatto che l’elenco dei camorristi di Barra corrispondeva, anche negli errori, a quello preparato dai carabinieri.

Pasquale Barra "u' animale" - accusato anche di aver ucciso Francis Turatello e di averne mangiato le interiora

Questo che dico non è il frutto di mie idee, questo è quanto scrivono ancora i giudici del III troncone:” (…) il dissociato (Barra) nomina i presunti affiliati alla nuova camorra organizzata (…) recitando l’organigramma redatto dai Carabinieri il 16.1.82, seguendo lo stesso ordine di incolonnamento e talvolta ripetendo lo stesso eventuale errore di trascrizione del cognome“; (…) “il dissociato, pur di mantenere i privilegi personali concessigli, era passato ad effettuare affermazioni accusatorie di ogni genere, arricchite con particolari di fantasia” (…); “In definitiva Barra Pasquale con le sue ‘rivelazioni’ non appare di nessuna efficacia ai fini della costituzione, ‘ex ante’, del quadro probatorio e se ne dovrà fare pressoché a meno nella valutazione delle posizioni dei singoli imputati“; (…) “il Barra (…) avendo preso impegno con i magistrati (…) al fine di continuare a rimanere fuori (…)“.

Il Barra inoltre si era lasciato sfuggire, nel quadro delle prime dichiarazioni che egli presumeva, in qualità di santista, di riuscire a rivelare tutti o
quasi i nomi. Pertanto, avendo preso impegno con i magistrati
inquirenti a fornire un grosso contributo, al fine di sperare di
continuare a rimanere fuori di un certo circuito carcerario, (…) questa spinta
egoistica, deve aver influito al massimo nell’indurlo a ritenere che
tanti personaggi periferici, conosciuti in carcere, giudicabili o in
espiazione pena, toccati marginalmente dalla rete d’influenza della
N.C.O., ne fossero entrati a far parte, ne dovessero far parte
.”

E proprio questo era avvenuto per P.A.: Barra lo aveva conosciuto di sfuggita in carcere, e, poi, ricordava il cognome quasi simile a P. di altro presunto camorrista (cambiava la vocale finale da o in a).

Aveva perciò fatto una sintesi e P.A. era diventato quel P. con cognome che finisce in a.

Il dramma di P.A. si ebbe quando in aula Barra non intese confermare quando riferito in quella ricognizione di persona del luglio 1983 che portò alla sua scarcerazione.

In aula Barra nonostante l’insistenza delle mie domande che cercavo semplicemente di fargli dire quello che aveva detto in sede di ricognizione, si trincerò dietro un intransigente “avvocà, non confermo e non smentisco”.

Nel mio caso, poiché in precedenza c’era stata una affermazione (fa parte della NCO) e una successiva smentita (questo non è lui) avremmo dovuto anche capire cosa intendesse per conferma e per smentita, ma questo non fu possibile.

Per quanto riguarda l’altro pentito, Pasquale D’Amico, io mi ero preparato il colpo a sorpresa.

P.A. continuava a giurarmi e spergiurarmi che non lo aveva mai visto né conosciuto a questo D’Amico e allora, d’accordo con lui, decisi che gli avrei chiesto, in aula, di indicarmi se P.A. fosse o meno presente nelle “gabbie”.

Del resto a uno che dice “conosco P.A.  che è un camorrista della NCO di Nocera”, chiedergli di indicarcelo mi sembrava il minimo.

Il giorno dell’interrogatorio di D’Amico, mi avvicinai alle “gabbie” per parlare con P.A. e lo trovai con la testa completamente fasciata e un occhio tumefatto. “sono caduto dal letto” mi disse.

Sta di fatto che con quel turbante era quello che si notava tra le decine di imputati nelle “gabbie”; la fasciatura della testa era il punto di fuga visivo nel quadro vivente di quella folla di carcerati; un poco come il puntino rosso che Guttuso usa mettere su ogni sua tela.

Gli chiesi perciò se se la fosse sentita che facessi quella domanda che avevamo concordato. Lo feci perché se mi avesse mentito e conosceva D’Amico ma voleva azzardare quella mossa, ora, in queste condizioni, avrebbe compreso che il rischio di essere riconosciuto e indicato era altissimo.

P.A. mi disse “procedete avvocato”. Fu proprio allora che mi convinsi della innocenza di P.A. che potrà avere avuto compagnie discutibili, avrà ricevuto la cartolina di auguri dal carcere inviata da S.D.M. detto T.U.G., potrà aver commesso reati vari, ma sicuramente non era la persona che indicava Barra e non conosceva D’Amico.

Ovviamente D’Amico si rifiutò di rispondere alla mia domanda, anzi, dico meglio rispose “non confermo e non smentisco” anche a questa mia domanda che non richiedeva alcuna conferma o smentita.

Dopo quella udienza ottenni, per P.A. il suo trasferimento nell’Ospedale Psichiatrico di Reggio Emilia perché, su una mia richiesta di arresti domiciliari per motivi di salute supportata da una consulenza psichiatrica di parte che affermava la incompatibilità con il sistema carcerario delle condizioni di salute del mio cliente, il Tribunale decise una fase di ricovero “in osservazione” prima di decidere se accettare o meno la richiesta.

A questo punto potrei dilungarmi molto ancora sul dibattimento ma dovrei sconfinare nel “suo” processo Tortora e non nel “mio”; la vera battaglia in aula era solo contro Enzo Tortora.

Sui vari Melluso, Pandico, Rosalba Castellini e la sua mutanda con l’elastico rotto, il marito Giuseppe Margutti e i suoi quadri, e tanti altri ancora si è detto e scritto tutto.

Mi va solo di ricordare una cosa che, secondo me, sarebbe bastata, da sola, per escludere dal processo Pandico, il grande accusatore di Enzo Tortora: avvenne all’udienza successiva alla morte di sua madre (3 giugno 1985).

La signora Francesca Muroni, madre del pentito, venne fatta saltare in aria da una carica di 1 Kg di tritolo posto sotto il prefabbricato in cui viveva in un campo per terremotati.

Ho assistito, quel giorno in aula a una scena di una ferocia inaudita e unica.

Si era appreso dai giornali che l’attentato era stato rivendicato dalla NCO.

Prima che entrasse il Tribunale si sentì, in uno strano silenzio, nell’assenza del solito brusio, un imputato, posizionato nell’ultima “gabbia sulla sinistra, la più lontana di quella in cui c’era Pandico (ultima sulla destra), gridare “Pandicoooo” e subito dopo dalla cella immediatamente adiacente e poi a mano a mano fino a quella che precedeva quella di Pandico, tutti gli imputati carcerati fecero “Ta-Ta-Ta-Ta-Ta-Ta Bum”. Praticamente con un sincronismo da ola sugli spalti di calcio, avevano simulato l’esplosione che aveva ucciso la madre del pentito. La scena si ripeté più volte, mi sembra 3/4 e in quelle successive la prima ebbi anche modo di guardare i protagonisti che, per non essere individuati dai carabinieri, facevano il verso con le spalle girate all’aula e quindi ai Carabinieri che erano in aula per il sevizio d’ordine.

Nella udienza precedente c’era stato il confronto tra Enzo Tortora e Melluso al quale assistetti con particolare attenzione, in prima fila, non perché riguardasse una mia posizione, ma perché riguardava un mio “amico”. Proprio così, oramai io mi ritenevo amico di quella persona che “frequentavo” spesso, praticamente a tutte le udienze del processo. E mi misi, come fu anche ripreso dalla foto apparsa su un quotidiano, in modo da guardare Tortora, quasi a volergli dare una “mano”, un “aiuto”, a volergli dimostrare la mia solidarietà.

Devo dire che per tutto il viaggio di ritorno ho riflettuto che forse sarebbe giusto abolire il confronto quando a doverlo fare sono due persone così distanti, moralmente, tra di loro. Certo, lo so, sto dicendo una cosa insensata da un punto di vista giuridico, ma se si assiste a quello strazio cui ho assistito io quel giorno, idee del genere ti possono anche venire.

Melluso, Gianni il bello, che convolerà a nozze il mese successivo facendo pubblicare le foto con il suo vestito firmato “Valentino”, che si rivolgeva a Enzo Tortora che non ha mai conosciuto né visto in vita sua se non in televisione, chiamandolo “Enzino”, è qualcosa di veramente disgustoso.

Il cinismo di voler approfittare di una persona innocente solo perché l’accusa calunniosa che gli muovi ti può essere utile per fini miseri mi ha fatto comprendere quanto fosse vero l’aforisma di Oscar Wilde: “il cinico è colui che sa il prezzo di ogni cosa e il valore di nessuna”.

Ritornando alla udienza dopo il 3 giugno 1985 il Presidente chiese a Pandico in aula nella sua cella se avesse voluto, in considerazione di quello che era accaduto, allontanarsi dall’aula chiarendogli che era un suo diritto non partecipare al processo, cioè poteva farlo.

Giovanni Pandico rispose, “grazie Presidente lo so, ma io resto al mio posto come lei rimase dopo la morte di sua madre”.

In questa frase si legge, anche da un non addetto ai lavori, un delirio di esaltazione. Il pentito si accosta e si paragona al Presidente del Tribunale quasi a voler significare il ruolo identico che svolgono.

Certo, il dolore e soprattutto la morte, non hanno categorie, sono la famosa “livella” di Totò, però qui, nella risposta di Pandico non era in gioco il dolore, era in gioco l’esibizione del proprio io, il suo fanatismo; il dolore era presente nella domanda del Presidente.

Renato Vallanzasca e Francis Turatello

Pandico quel giorno divenne un novello Meursault il protagonista dello “straniero” di Camus che per la morte della madre, ospite di una casa di cura fuori città sembra non provare alcun tipo di emozione, rifiuta di vederne le spoglie quando gli viene chiesto dal direttore della casa di riposo, e preferisce bere caffè e fumare vicino alla bara, destando non poca perplessità nelle persone che lo osservano.

E così Pandico rifiuta il “suggerimento” del Presidente e, indifferente alla morte, preferisce rimanere nell’aula ad accusare.

Chi è Pandico, estraneo a sé stesso, se non un volgare assassino, un folle o un ribelle calunniatore?

Chissà se questo momento processuale abbia influito durante la redazione della motivazione della sentenza nella affermazione ivi riportata: “Pandico ha dimostrato una dedizione senza pari alla causa della giustizia”, che poi è diventato per i giudici del III troncone davanti ai quali Pandico non ha avuto occasione di “esibirsi” addirittura sulla morte della madre: “Pandico ha dato corpo ai suoi personali risentimenti”.

Comunque dopo l’escussione dei testi e anche dei Carabinieri che non hanno fatto una bella figura in questo processo, e non solo per colpa loro, è iniziata la fase della discussione: prima il PM Diego Marmo e poi tutti noi avvocati.

Alla prossima puntata.

Giovanni Falci

 

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