di Alberto De Marco
Antonio de Curtis, è nato a Napoli il 15 febbraio 1898, in Via Antesaecula, 107 al Rione Sanità, dalla relazione di una giovanissima popolana, Anna Clemente, che lo registrò con il proprio cognome e dal Marchese Giuseppe de Curtis, un nobile che riconosce la paternità, soltanto dopo diversi anni dalla nascita di Antonio, perché osteggiato dalla famiglia, che non accettava il ceto sociale materno. In un’epoca difficile per le ragazze madri, soprattutto in un contesto sociale particolarmente gravoso agli albori del diciannovesimo secolo, Anna, soprannominata “Nannarella”, aiutata dalla madre e dai fratelli si preoccuperanno di educare e di curare la crescita di quel bambino, che precocemente dimostrerà doti artistiche straordinarie. Quel bambino gracile, per il quale la madre sognava un futuro diverso, prelato o ufficiale di marina, non mostrava interesse per la scuola; contrariamente coltivava una grande passione per il teatro. Era soggiogato dalla figura del “pazzariello”, che seguiva con entusiasmo, quando gli capitava di vederlo per strada. Mentre studiava al Collegio a San Giovanni di Carbonara subì un incidente sportivo, che successivamente si dimostrò di grande utilità per la trasformazione del viso dell’artista, che diventò per un caso, una vera maschera: “… Tutti erano scesi nel cortile dove si ingaggiavano furibondi e scherzosi incontri di boxe. Non fu così scherzoso il cazzotto che gli affibbiò un giovane precettore, che per scansare un colpo, lo colpì violentemente in maniera del tutto accidentale. La mascella deviata, quel volto sbilenco, con il naso che si sposterà a destra”, come scrisse Giuseppe Marotta: “… un volto indefinibile, astruso senza parentele, dalla mascella deragliata”. Successivamente, con esercizi volontari abbinati ad un corpo magicamente disarticolato, continuerà a deformare la mascella, per proporsi da futuro attore, come marionetta senza fili. Non ha messo una maschera sul volto per interpretare i suoi personaggi, ma è divenuto egli stesso una maschera, adattando e forgiando il viso ed il corpo. Totò ha rappresentato nella recitazione l’unica maschera vivente, mentre normalmente una maschera viene sovrapposta alla figura dell’interprete per creare un personaggio. Dopo la scuola farà diversi lavori, come garzone di bottega ed aiuto imbianchino, ma nel tempo libero si eserciterà nell’imitazione delle più note macchiette. A casa utilizza lo specchio per osservare la sua mimica ed indossa gli abiti del nonno. Per usare le parole di Totò: “… il frac era di mio nonno. I calzoni a mezz’asta erano di mio padre, ero costretto a tirarli su per camminare. Aggiunsi una bombetta e fu fatta”. Incomincia ad ottenere qualche riconoscimento, partecipando alle cosiddette “periodiche”, trattenimenti privati in giorni festivi presso famiglie più o meno abbienti. Al loro susseguirsi, il giovane comico alterna qualche parte in teatro d’avanspettacolo tra i più modesti. Nel 1915, allo scoppio della prima guerra mondiale, si arruola ed è assegnato nel reggimento di fanteria, di stanza a Pisa. Si rese subito conto con le ingiustizie ed i soprusi dei graduati, della sua incompatibilità con la vita militare. Ritornato alla città nativa, dopo avere studiato le più celebri vedette napoletane: le macchiette più famose, la prima in assoluto, rappresentata da Nicola Maldacea con i suoi irresistibili sketch e dal fantasista Gustavo De Marco, ai quali si ispirerà per concentrare il suo impegno con un repertorio comico ed acrobatico, arricchito da “divertenti imitazioni“, dopo i primi successi nella provincia e sul territorio napoletano, passando da Aversa a Torre del Greco, “dall’Orfeo” di Castellammare al “Nuovo“ di Napoli, fino ad approdare ad un teatro più prestigioso, il “Trianon“, per riprendere poi nei teatri romani con il trasferimento della famiglia. Nella città eterna, in ogni caso, si appassionava, si interessava e traeva spunto dall’arte del collega romano Ettore Petrolini. L’esordio a Roma di Totò, presso il “Salone Elena” in Piazza Risorgimento fu un successo. Era una modesta baracca di legno, dove lavorava la Compagnia comica diretta da Umberto Capece, che faceva rivivere la maschera del Pulcinella napoletano. Nonostante l’interesse suscitato da Totò, dopo alcune settimane di spettacoli, Capece lo aveva licenziato, perché non aveva gradito le rivendicazioni dei suoi legittimi diritti di lavoratore. Il giovane artista, decideva di rivolgersi a don Peppe Jovinelli, che era uno degli impresari più esigenti di quel tempo. Il giorno successivo, superate le prove, veniva scritturato nell’omonimo teatro: “… Il mio successo veniva annunciato da nuovi striscioni, dove il mio nome era scritto con caratteri alti mezzo metro. Sapete che effetto mi facevano! Mi sembrava di sognare”. In quel momento si era dischiusa una nuova era artistica per Totò sempre più richiesto e successivamente impegnato in altri teatri a Roma. In un successo crescente, lavorerà presso il teatro “Sala Umberto” di Roma, per esibirsi poi in altre città al “S. Martino” di Milano, al “Maffei” di Torino, etc …. Antonio era artista dai gusti raffinati, con una particolare ricerca di eleganza nell’arredamento e nel vestire. Indossava abiti scuri di taglio classico ed amava la cucina dei grandi cuochi. Si fidava solo di alcuni ristoranti, che frequentava di sera ed aveva l’abitudine di andare a dormire all’alba e di svegliarsi a mezzogiorno. Anche quando il successo e la ricchezza arrisero all’artista non volle mai dimenticare la sofferenza e la miseria che l’avevano accompagnato durante la giovinezza e pertanto dimostrò nel corso della vita sempre uguale sensibilità per i meno fortunati. Era altresì amareggiato dalla sua iniziale registrazione anagrafica e dalla decisione del padre, il marchese Giuseppe de Curtis, che finalmente sposerà nel 1921 Anna Clemente e soltanto nel 1928 lo legittimerà come figlio, quando ha già ottenuto diversi riconoscimenti per le sue capacità artistiche ed ha notevolmente migliorato le sue condizioni economiche. Ciò non lo appaga completamente e lo stimola ulteriormente alla ricerca spasmodica di una rivalsa sociale, attraverso l’acquisizione di ulteriori titoli nobiliari, che si dimostrerà particolarmente onerosa, stimolando nel tempo una vera e propria dicotomia tra Antonio de Curtis e Totò. Fu in seguito adottato nel 1933 da un nobile squattrinato, che aveva accolto in casa ed aveva sostenuto economicamente, come era nella sua indole di straordinaria umanità per le persone meno abbienti, che ha caratterizzato sempre la sua vita. Non si sprecavano gli atti di generosità del Principe, che quando andava nella sua città, nel Rione Sanità dove era nato, nella tarda serata, quando tutti dormivano, conservando l’anonimato, usava mettere sotto l’uscio delle porte, banconote da diecimila lire, che per le famiglie povere “era come la manna piovuta dal cielo”. Amava molto gli animali, si era adoperato per la costruzione di un canile per accogliere cani randagi. Mostrava generosità anche con gli istituti religiosi ed in particolare con gli orfanotrofi, dedicandosi a numerose opere di beneficenza. Quando lavorava al teatro o sul set cinematografico, era sempre attento alle istanze e alle necessità delle sue maestranze. In alcuni casi si approfittava dell’enorme sensibilità del Principe. Numerosi sono gli episodi di grande generosità, che meriterebbero di essere ricordati. Pur non conoscendo Totò, un considerevole numero di persone, l’hanno avvicinato coinvolgendolo alle loro problematiche e realizzando oltre ogni limite le aspettative desiderate. Famiglie povere interessate ad un alloggio consono o ad un sostegno economico per acquistare gli alimenti necessari e affrontare in alcuni casi le patologie mediche dei propri figlioli, che necessitavano cure sanitarie particolarmente onerose. Soltanto successivamente e casualmente, aveva scoperto presso l’Archivio di Stato di Salerno, i documenti storici, trai quali un atto notarile del 25 gennaio 1512, relativi all’importanza dei titoli gentilizi di : “Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Commeno Porfirogenito Gagliardi de Curtis di Bisanzio, altezza imperiale, conte palatino, cavaliere del Sacro Romano Impero, esarca di Ravenna, duca di Macedonia e di Illiria, principe di Costantinopoli, di Cilicia, di Tessaglia, di Ponto, di Moldavia, di Dardania, del Peloponneso, conte di Cipro e di Epiro, conte e duca di Drivasto e di Durazzo …” che aveva acquisito inconsapevolmente con l’adozione del Marchese Francesco Gagliardi. Questi documenti sono stati fondamentali per la causa di Antonio de Curtis per i titoli nobiliari, che a seguito anche di un primo parere del Tribunale, il 6 maggio 1941 con Decreto Ministeriale, fu riconosciuto discendente del Principe di Bisanzio. Le sentenze del 18 luglio 1945 e del 7 agosto 1946, della IV Sezione del Tribunale di Napoli, riconobbero ad Antonio de Curtis, il diritto di fregiarsi dei nomi e dei titoli. Successivamente registrati a pag. 42, volume 28 del libro d’oro della Nobiltà Italiana, tenuto presso l’Archivio Centrale di Stato della Consulta Araldica di Roma. La lunga controversia legale, si concluse con la sentenza del Tribunale Civile di Napoli il 1° marzo del 1950, che determinò la rettifica e l’acquisizione all’Anagrafe di tutti i titoli nobiliari, “grazie” anche all’abilità del principe del foro romano, l’Avv. Eugenio De Simone. La vita di Antonio, è stata costellata da tre grandi amori: nel 1929 con l’attrice Liliana Castagnola, di origine genovese, purtroppo la relazione si concluse in modo drammatico con il suo suicidio; seguì nel 1931 un altro grande amore, seppure tormentato. Con l’intento di superare l’inquietudine di questa drammatica relazione sentimentale, avendo conosciuto occasionalmente la giovanissima fiorentina Diana Bandini Lucchesini Rogliani ed innamoratosene, in tempi brevi erano convolati a nozze, nonostante gli ostacoli frapposti dalla famiglia di lei per la differente età. Dalla relazione nacque la figlia, che chiamò Liliana, in memoria della soubrette morta tragicamente. Anche questa relazione non ebbe una lunga durata per l’eccessiva gelosia che animava Totò. Infatti ottennero l’annullamento nel 1939 ma continuarono a vivere insieme per alcuni anni al fine di garantire quotidianamente alla piccola Liliana l’affetto di entrambi i genitori. Alla costante gelosia di Totò che manifestava anche degli eccessi, si alternava quella di Diana che aveva subito diversi tradimenti ed aveva male interpretato l’invaghimento di Antonio per l’attrice Silvana Pampanini. Pertanto aveva interrotto bruscamente la relazione. Forse per ripicca, sposò successivamente l’Avvocato Michele Tufaroli. Un matrimonio che non durò molto. Tutto ciò generò nel cuore dell’artista un grande dolore, che ispirò la canzone “Malafemmena“. Questi periodi sentimentalmente drammatici, ebbero finalmente la loro battuta di arresto, infatti il Grande Artista dalla Straordinaria Umanità, che ha sofferto molto nelle relazioni sentimentali, trova finalmente nel 1952, “la donna del cuore“. Dopo tre mesi, la bellissima attrice ventenne Franca Faldini, dagli occhi verdi e capelli lunghi e neri, che aveva rinunciato per amore di Totò al contratto con la Paramount, andava a vivere sotto lo stesso tetto nella splendida casa di Roma in Via Bruno Buozzi ai Parioli. Antonio aveva imparato a dominare la gelosia e soprattutto ad essere fedele. Quell’unione aveva donato all’artista, momenti di serenità e di grande felicità, grazie all’amore di Franca. Questa relazione, aveva raggiunto l’apoteosi con l’attesa del figlio che era destinato a continuare il Casato. Il 12 ottobre 1954, in una clinica romana, nacque il figlio tanto atteso, al quale fu imposto il nome Massenzio. La felicità ebbe una battuta di arresto, il bimbo morì nello stesso giorno, esautorando i sogni del principe, che temette anche per la vita della compagna. Dopo il dramma, la coppia di artisti aveva continuato negli anni, a vivere intensamente la solida relazione, superando successivamente altre vicende tristi collegate alle condizioni di salute di Totò. Nell’inverno del 1957, nel corso della tournée, mentre recitava al “Teatro Nuovo” di Milano, una broncopolmonite lo costringeva a letto. Nonostante la considerazione per la salute, l’eccessivo senso di responsabilità per i colleghi, preoccupato di lasciarli senza lavoro, l’avevano costretto ad abbandonare la scena, solo per quattro giorni. In tal modo sottovalutava quel malanno, che quale primo effetto gli provocò un collasso. La grave infezione, curata male, gli aggravò, in breve tempo, le condizioni della vista e la cecità lo colpì in scena a Palermo, il 3 maggio 1957 costringendolo all’immobilità per molti mesi. Nel periodo di inattività, ancora una volta la migliore medicina era rappresentata dall’amore e dalle cure della compagna. Antonio trascorreva le giornate in attesa delle visite oculistiche e rivolgeva l’interesse e il suo impegno nella creazione di poesie e canzoni, che declamava al registratore e Franca successivamente trascriveva. Le cure avevano dato ottimi risultati ed Antonio lentamente, grazie anche alla sua forza di volontà, ricominciò a recuperare la vista e con quella la vitalità. Ancora più fervida la vena poetica, con i suoi profondi sentimenti di amore, espressi con delicatezza di immagini, come nella poesia “E pezziente” dove descrive la dignità della miseria, l’indifferenza della gente che non degna neppure di uno sguardo, o nella poesia “A mundana“, costretta a prostituirsi per mantenere il padre, la madre e la sua povera creatura. Sono pietre miliari della raccolta “A livella”, che rappresenta il panorama poetico di Totò, il suo testamento, e che racchiude tanti piccoli gioielli della sua sensibilità. Come annota Marco Amendolara: “… scrittura e profondità del pensiero davvero s’incontrano; in cui, di fronte alla morte livellatrice, non esistono più rancori, lotte fratricide ed interessi di casta”. Dal punto di vista artistico, Totò è un personaggio che non ha pari, assolutamente fuori dal comune ed è stato unico nella rappresentazione della maschera, che trae le origini non soltanto dalla tradizione napoletana, il suo più grande Maestro è stato Gustavo De Marco, dal quale ha assimilato quella comicità legata ad una particolare mimica del corpo; nonché l’arte dei doppi sensi ed infine alcune macchiette, che ha mirabilmente rielaborato con la straordinaria interpretazione “dell’attore-marionetta”; ma ha subito altresì, gli influssi dell’attività classica, di quella greco romana, se non dell’attività dei periodi anche precedenti. Come attore teatrale, la sua ultima rappresentazione è avvenuta con la Rivista “A Prescindere”; e soprattutto con il suo impegno artistico dell’attività cinematografica, che ebbe inizio nel 1937 con il film “Fermo con le mani” di Gero Zambuto per terminare con il 98 film “Capriccio all’italiana”, nel quale interpreta due episodi “Il mostro della domenica” di Steno e “Cosa sono le nuvole” di Pier Paolo Pasolini, che uscirà nel 1968. Negli ultimi anni della vita, quasi cieco, aveva continuato a lavorare intensamente. Nel 1966 dopo il film con Pier Paolo Pasolini “Uccellacci e uccellini”, aveva ottenuto il secondo “Nastro d’Argento“, il primo l’aveva ricevuto per il film “Guardie e ladri” di Mario Monicelli, mentre a Cannes riceveva “Il Globo d’oro“ da parte della critica internazionale. Per il Cinema ha ricevuto anche altri prestigiosi Premi: “Saint Vincent”; “La Grolla d’Oro”; “il Premio Speciale degli incontri del Cinema”; etc… Con il film di Pasolini anche i critici che in passato avevano osteggiato Totò, cominceranno ad osannarlo. Totò continuò a lavorare per il Cinema, fino al giorno prima della sua morte, mentre girava in esterni una sequenza per il film di Nanni Loy, “Il padre di famiglia”, accusò un dolore al petto e dovette ritirarsi, la sua parte fu affidata successivamente ad Ugo Tognazzi. Il cuore di Totò si fermò nelle prime ore della mattinata alle 3.30 del 15 aprile 1967, dopo avere subito in poche ore un numero considerevole di infarti. Spirava serenamente nelle braccia dell’amata e fedele compagna, Franca Faldini. Antonio de Curtis, è stato seppellito a Napoli nella sua Cappella del “Cimitero del Pianto”, dopo tre cerimonie funerarie, delle quali, la prima si è svolta a Roma.