Avv. Giovanni Falci
SALERNO – Il XVII secolo è stato il secolo delle matematiche. Il XVIII quello delle scienze fisiche. Il XIX quello della biologia. Il XX quello della cibernetica. Il nostro è il secolo della paura.
Ma, tanto per incominciare, la scienza c’entra pure qualcosa, perché i suoi ultimi sviluppi teorici l’hanno portata a negare se stessa e poiché i suoi perfezionamenti pratici minacciano di distruggere il mondo intero.
La cosa che più mi colpisce, in effetti, nel momento che stiamo vivendo, è, innanzitutto, e in generale, che gli uomini sono nella stragrande maggioranza (salvo i credenti di tutte le fedi) privati del futuro.
Le stesse previsioni dei “picchi”, della inidoneità delle strutture a fronteggiare i ricoveri, non forniscono una idea di futuro comprensibile.
Non esiste vita, degna di questo nome, senza una proiezione nel futuro, senza una promessa di maturazione e di progresso.
Vivere contro un muro è una vita da cani.
Ebbene in questi giorni stiamo vivendo sempre più come cani.
Naturalmente non è la prima volta che gli uomini si trovano davanti a un futuro materialmente murato.
Di solito però hanno la meglio su di esso grazie alla parola e al grido.
Fanno appello ad altri valori in grado di procurare loro una speranza.
Oggi nessuno parla più. Per parlare si ricorre a cantare sui balconi; ma questo non è né parlare, né gridare.
Il mondo ci sembra trascinato da forze cieche e sorde che non sono disposte ad ascoltare le grida di avvertimento né i consigli né le suppliche.
In noi qualcosa è stato distrutto dello spettacolo degli anni che abbiamo appena trascorso. La situazione è quindi di paura.
In sostanza si tratta di un problema di cultura: di sapere se l’uomo, senza il soccorso dell’eterno o del pensiero razionalista, può creare da sé i propri valori. In ultima analisi quello che interessa è sapere come bisogna comportarsi.
Noi siamo sempre in rapporto e collegamento con la morte senza però pensarci, è un rapporto che definirei regolato dal sistema nervoso del simpatico; ma questa volta siamo “costretti” a pensarci, siamo costretti a rivedere questo rapporto con il sistema nervoso centrale, con il cervello.
E più precisamente, allora, come ci si può comportare quando non si crede in Dio né nella ragione.
E quale può essere la migliore lezione sulla paura di morire se non il monologo di Amleto di Shakespeare?
Se lo analizziamo bene ci renderemo conto che Shakespeare è riuscito a guardare dentro ad ognuno di noi, parlandoci di qualcosa che accomuna ogni essere umano: la paura della morte.
Questo monologo infatti parla di come viene vista la vita da qualcuno che si sente terribilmente oppresso da quello che gli sta capitando, come noi in questo momento.
Ma poi, qui secondo me sta tutta la bellezza di questo monologo, Shakespeare ci lascia intendere che anche decidere di morire è difficile, perché nessuno sa cosa ci sia oltre la morte e, si sa, l’ignoto è da sempre qualcosa che spaventa l’essere umano. Egli così si esprime sulla paura, innata di ogni essere umano “l’inesplorato mondo da cui nessun viandante fece mai ritorno”.
Amleto con questo soliloquio si mette completamente a nudo, rivelando tutta la sua fragilità che è la stessa nostra chiusi in casa.
Una fragilità che lo accomuna a noi, perché tutti in questi giorni abbiamo paura della morte, di smettere di esistere.