LAVORO: il sogno americano !!

Aldo Bianchini

SALERNO – Quanti giovani lasciano il nostro Paese per trovare lavoro e per espletare un’attività professionale all’estero, ovvero quanti giovani lasciano l’Italia destinazione Regno Unito o Stati Uniti d’America ? La risposta è facile facile: “molti” se non proprio moltissimi.

La risposta più difficile e/o articolata da dare è sul perché vanno via; e qui si innestano varie correnti di pensiero. C’è chi lo fa per continuare le ricerche scientifiche in un Paese che dà molto spazio alla ricerca che in Italia langue non solo sul piano strutturale ma anche su quello squisitamente economico. C’è chi lo fa perché più semplicemente nel nostro Paese non ce l’ha fatta a laurearsi o a diplomarsi e tenta l’avventura all’estero accettando lavori anche di basso profilo che qui da noi non avrebbe mai fatto sia per ragioni legate al ceto sociale che per mera indipendenza ben pagata. E c’è, infine, chi preferisce andare all’estero per puro spirito di avventura (pochissimi !!).

Sullo sfondo, più che quello britannico, c’è a tutt’oggi il cosiddetto mitologico “sogno americano” che cresceva a dismisura proprio quando in Italia vivevamo il lungo periodo passato alla storia come “Avevamo la Luna” alludendo al boom economico degli anni ’60; un modello economico sociale che finanche gli statunitensi cercarono di copiare. Loro lo hanno messo a frutto, noi lo abbiamo malamente dissipato.

Di quel sogno americano non è rimasto quasi più nulla, nel senso che anche gli Stati Uniti d’America (U.S.A.) con le migrazioni da tutto il mondo hanno esaurito le loro riserve auree di posti di lavoro, di ricerca nelle università e di occasioni per emergere in maniera brillante e definitiva. Insomma, come dire che il Paese che fino a qualche decennio fa riusciva ad offrire almeno una opportunità di farcela, non c’è più.

Difatti l’America non è più l’America di un tempo e con l’arrivo alla presidenza di Donald Trump tutto è stato reso ancora più difficile dall’ America First (prima l’America) lanciato appunto dal presidente.

In questo clima mi appare assai esaustivo il racconto di un giovane salernitano, Piero Armenti, che vive e lavora con un certo successo nella città della grande mela, New York; racconto pubblicato qualche settimana fa sul suo blog. Per meglio chiarire, Piero è andato via dall’Italia e con tanto di laurea in giurisprudenza sotto il braccio si è proiettato nell’Isola di Manhattan della “big apple”.

Chi è Piero Armenti ? Ecco come Egli stesso si descrive sul suo blog:Sono nato nel 1979, e sono un imprenditore e un urban explorer a New York. Riprendendo le parole di Vanity Fair sono «uno che a furia di camminare, girare e conoscere sa tutto, anche cose che non sempre si vedono». Ma non solo. Sono anche un giornalista professionista.  Nella mia carriera ho scritto molto per diverse testate e riviste, ad esempio per Panorama (qui un mio articolo), oltre ai libri sul Venezuela. Prima di trasferirmi a New York, infatti, ho vissuto cinque anni in Venezuela, a Caracas. Innamorato della Salsa, del Rum, e della follia caraibica. Poi ho viaggiato per l’America Latina. Nel 2008, sono tornato in Italia per conseguire un dottorato all’Università Orientale di Napoli. Nel 2011 mi trasferisco a New York ed è subito amore per questa incredibile città. Ne sono rimasto folgorato. Ho cominciato a raccontare la metropoli sui social network e su giornali e riviste con un buon seguito. E’ stato in quel momento che ho deciso di fondare il tour operator “Il mio viaggio a New York. Ma prima ho dovuto superare il difficile concorso (oltre 20 libri per prepararsi) per avere la licenza turistica nella Grande Mela”.

Naturalmente pochi, anzi pochissimi, ce la fanno; in tantissimi si adattano alle nuove condizioni di vita che, in verità, è almeno di uno scalino superiore a quelle che può offrire il nostro Paese.

Il giovane avvocato, oggi imprenditore americano di successo, spiega in maniera molto articolata la sua avventura newyorkese; ovviamente non tutto quello che scrive è condivisibile al cento per cento, difatti anche molti commentatori prendono le distanze. Ma Piero ha avuto il merito di aprire un dibattito molto interessante sul blog ilmioviaggioanewyork.com che ognuno di Voi lettori può aprire, consultare e semmai lasciando scritto il proprio pensiero.

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Ecco perché sono andato via da Salerno, e sono a New York: Il punto è che eravamo smarriti. Vagavamo nei corridoi dell’Università di Salerno, con la sensazione che tutto sarebbe stato troppo difficile. Volevi fare l’avvocato? Ma ce ne sono troppi. Il Magistrato? Ma il concorso è difficile, notaio non ne parliamo proprio. Il giornalista? Impossibile. Concorsi pubblici? Sono sempre meno. Questo è il clima di sfiducia se nasci in una città del Sud Italia, con la sensazione perenne che tutto ti sarà precluso, e la consapevolezza che dal futuro è meglio non aspettarsi granché. Pagavamo anche uno scotto familiare. Senza una famiglia importante alle spalle, non c’era la minima possibilità di successo. L’unica fiammella accesa era la bravura e il talento, con la sensazione che non sarebbe stato sufficiente, almeno non nella terra in cui sei nato.   Eravamo migliaia a studiare all’Università di Salerno, negli anni ’90, molti studenti venivano dalla Calabria e dalla Basilicata, tantissimi a Giurisprudenza nella speranza di una tanto desiderata ascesa sociale.

Mi sono sempre chiesto le ragioni di tale afflusso sproporzionato, e ne ho trovate due, che sono una cantilena che si ripeteva di famiglia in famiglia. “Giurisprudenza ti apre più porte”, dicevano tutti così, nell’illusione che i concorsi pubblici avrebbero assorbito tutti. E poi l’idea strampalata, tipica della provincia, che laurearsi in Giurisprudenza ti dava un certo status, per cui al bar ti chiamavano avvocato, e tu ti sentivi felice. Le altre lauree, tipo Lettere o Scienze delle comunicazioni, non erano la stessa cosa. Vivevano una strana stigma sociale, come fossero percorsi facili per gente poco intelligente.

Le ragioni di questo mito di “Giurisprudenza” sono semplici. Nel Sud Italia, soprattutto negli anni successivi al boom economico, chi non era emigrato, aveva trovato riscatto sociale grazie al posto nella pubblica amministrazione. Avere due stipendi da impiegato statale a Salerno (o in Calabria, in Basilicata) significava vivere discretamente, quindi i genitori proiettavano sui figli questa loro “percezione” e li spingevano a studiare Giurisprudenza, che è la laurea per eccellenza dei concorsi pubblici.   Si pensava che sarebbe stato così per sempre, anche se nel frattempo i concorsi pubblici diminuivano, e dopo gli anni ’80 il grosso debito pubblico aveva chiuso i rubinetti della pubblica amministrazione. Ma la percezione, si sa, conta più della realtà, e ci porta a fare scelte sbagliate.

Ma c’è una questione ancora più importante, che fa parte del nostro immaginario di provincia. In una città piccola come Salerno l’élite non era formata dagli imprenditori o capitani d’impresa, ma dall’avvocato, il magistrato, il notaio, il politico, o da dirigenti pubblici. Quindi a quello si aspirava, e per arrivare a quello c’era una sola laurea possibile: Giurisprudenza. Quindi mettiamola così: studiavi legge e se ti andava bene diventavi élite cittadina, tipo un avvocato, oppure qualche concorso pubblico prima o poi l’avresti vinto. Si ragionava così, anche se sapevamo non era assolutamente così, perché tutto stava franando attorno, e lo sentivamo.

Ma c’è di più: dentro di noi stavano emergendo nuovi desideri che non erano quelli dei nostri genitori: il mio, per esempio, era conoscere mondi lontani.

Ricordo una cosa. Soprattutto il Notaio era visto come un semidio dell’Olimpo, con tanta ammirazione anche se ben pochi capivano cosa facesse veramente, ma guadagnava bene. E gli imprenditori? Perché non era tra i nostri desideri fare impresa? Uno Stato vessatorio ci aveva fatto percepire gli imprenditori e i commercianti come mezzi criminali. In una città piccola come Salerno gli imprenditori veri erano troppo pochi per essere centrali nel dibattito cittadino. Che io mi ricordi, ai miei tempi, l’unica impresa degna di nota era la pasta Antonio Amato che tra l’altro fallì. C’erano invece tanti commercianti, di cui si parlava sempre in maniera dispregiativa: gente incolta, grossolana che evadeva le tasse.

In un clima di terrore imprenditoriale, non emergeva proprio la voglia di fare impresa, in famiglia non te lo diceva nessuno. Né i genitori, né gli zii, né i cugini, né i nonni. Mia mamma voleva facessi il magistrato, mia nonna il medico. Stop. Perché assumersi il rischio imprenditoriale per poi esser trattato male, essere vessato di tasse che avrebbero dovuto mantenere il grande carrozzone pubblico? Meglio un concorso pubblico, e uno stipendio fisso. Ora è diverso, con i social siamo a contatto con realtà lontane, si è aperta la mente. Ma prima, ai miei tempi, l’unica realtà che conoscevamo era il centro di Salerno e il nostro quartiere, era l’inizio e l’origine del nostro mondo, insieme alla Tv e ai giornali di Roma e Milano.  E in quel contesto era totalmente assente la cultura imprenditoriale, al punto che io la possibilità di fare l’imprenditore l’ho scoperta solo arrivando a New York, prima non ci avevo mai pensato. Occhio e croce non sapevo neanche cosa fosse un’impresa.

Ma il problema più grave era culturale: l’individuo era degradato a mero meccanismo della società. Nella scelta dell’Università, infatti, non interessava a nessuno cosa ci piacesse fare veramente, perché bisognava esser concreti e Legge era la cosa più concreta possibile. Chi eravamo noi? Quali erano le nostre inclinazioni? Questa cosa era semplicemente non degna di nota. Altrimenti forse avrei studiato altro, non Giurisprudenza.  Anche il rapporto con la ricchezza era contraddittorio, certo aspiravamo a migliorare la nostra situazione economica, ma ci interessava di più avere le ferie pagate, le malattie, orari di lavoro, e la sicurezza di non esser licenziati. A cosa serviva spezzarsi la schiena dodici ore al giorno, per un sogno. E poi troppa ricchezza veniva vista con un misto d’invidia, sospetto, al punto che se uno dal nulla aveva fatto i soldi, non c’era nessun termine positivo per indicarlo, se non “cafone arricchito”. Insomma fare troppi soldi era, in un modo o nell’altro, quasi peccato. Anche in questo caso mi son chiesto perché, visto che negli Stati Uniti non è così, e ho trovato questa risposta: dipende dalla radicata cultura cattolica (cattocomunista) che era egemonica all’epoca della nazione liberata dal fascismo, e aveva sempre ritratto la ricchezza e il denaro come qualcosa di cui diffidare, diabolico, in fin dei conti da allontanare come il maligno, salvo poi desiderarlo in gran segreto. Perché tutti, nessuno escluso, dentro di sé custodiva un desiderio di ricchezza. Ma bisognava essere ipocriti: fare le cose di nascosto, non ostentare troppo per non suscitare invidia. Bisognava fingere che le cose andavano perennemente così e così, altrimenti venivi visto male. Bisognava, in fin dei conti, non essere mai troppo felice della propria vita.

Questo è il clima in cui ho vissuto, quello in cui non c’era alcuna speranza, e per evadere mi rifugiavo nella letteratura, nello studio, e nell’illusione che esistesse un posto lontano, immaginario, in cui i miei sogni sarebbero diventati realtà, e dove magari avrei potuto scrivere un romanzo ed essere pubblicato da una casa editrice importante. Poi questo posto l’ho trovato, e si chiama New York. (Ed anche il romanzo l’ho scritto, che esce ad aprile).

New York è stata una rivelazione, perché finalmente per la prima volta sono venuto a contatto con un ambiente diverso, che ha rivoluzionato il mio modo di pensare. E pian piano, giorno dopo giorno, con i tanti esempi che vedevo da vicino, mi ha convinto che anche io, ragazzo vissuto tra i libri a Pastena, potevo cambiare il mio destino, e da persona formata per essere un impiegato pubblico, potevo diventare qualcosa di diverso, far emergere la mia individualità con passioni, inclinazioni e difetti. New York mi ha insegnato il bello della società dei consumi, a liberarmi dal senso del peccato cattolico, ad esser felice senza dover nascondermi,  e cosa più importante: mi ha insegnato a fare impresa, a costruirmi il futuro con le mie mani in una terra dove non conta di chi sei figlio, perché nessuno è figlio.

 

 

 


Commenti

Francesco on February 15 2020 at 11:35PM

Piu’ che leggere la tua riflessione, e’ interessante vedere i commenti degli invidiosi che vorrebbero essere al posto tuo che hai avuto il coraggio e la fortuna di poterlo fare e riuscire.
In pratica gli stessi che spesso ti criticano anche sul gruppo, l’ amore per il sud e per l’ Italia, l’ attaccamento al lavoro, che se venissero a NY guadagnerebbero il triplo ma la mattina non si alzano per il Dio denaro, ma danno tutto in beneficenza, a chi non sta bene perché hai scritto troppo, e troppo tempo ci vuole a leggere, insomma i soliti che criticano e il più delle volte offendono con la stessa modalita’ che hanno sul gruppo, padroni incontrastati, che amano e odiano gli States ed il sistema di vita americano ed adorano la chiesetta di casa loro.
Dal canto mio, non hai una ma mille ragioni, e chi sa quanti leggono e si ritrovano in quel che hai detto ma ne hanno vergogna ad ammetterlo, di cosa non so, ma di una son certo, l’ invidia e’ sempre la prima a fare capolino. Continua a farti pubblicita’ Piero, senza nessun problema, ce l’ ha fatta, vendi il tuo prodotto senza dar peso a i giudizi degli altri, viviti il sogno americano a i nostri tempi, e la prossima volta che vengo a NY ci sta che passi a trovarti…have a nice day.

Iolanda on February 15 2020 at 08:45PM

Hai saltato la parte più importante! Come mantenersi a NY o altrove per il periodo necessario a maturare l’idea di cosa fare( viaggio, pasti, pernottamenti, spostamenti,….) Come risolvere la questione dei permessi di soggiorno… Forse si passa per lavori stracciati e modesti per mantenersi…poi ci si arrampica sugli specchi, finché se va bene, ti nasce l’idea di cosa fare. Poi per metterla su occorrono un po’ di soldi per iniziare…Penso che questa sia la fase più difficile che frena tutti, altrimenti andremmo tutti in giro per il mondo. Se poi c’è l’aiutino dei genitori o dell’amico che ti ospita, allora è un’altra storia. Però va detto!
Comunque complimenti per l’entusiasmo e per la bella pagina su fb!

antonio on February 15 2020 at 07:30PM

Bravo.Condivido il tuo pensiero e trovo molta letteratura americana che parla di crescita personale mentre in Italia stiamo ancora a pensare alla differenza fra destra e sinistra. Gli americani sono più evoluti imprenditorialmente e mettono a disposizione di chiunque la conoscenza per la crescita intellettuale ed economica. In Italia siamo creativi, ci arrangiamo. In solitudine qualcuno sopravvive a mille difficoltà pur di rimanere attaccato alla sua terra. Alcuni emergono e devono proteggersi dalle invidie dei vicini. Come italiani dobbiamo progredire ancora molto e imparare dagli americani a riconoscere la verità delle cose.Poi saremo davvero il miglior Paese al mondo.

Enrica on February 15 2020 at 06:54PM

Io penso che tu abbia realizzato un bel progetto nella tua vita e con successo però tu ami la vita italiana e credo che bisogna anche rimanere con mentalità delle tue origini mentre vedo purtroppo che spesso ti fai contagiare nello stile americano ma importante che tu sia felice!!!!!

James on February 15 2020 at 03:30PM

Concordo sulla percezione negativa della ricchezza in Italia ma bisogna anche ammettere che negli Usa sono ossessionati dal dio denaro

Giacomo on February 15 2020 at 12:41PM

Ancora con questa retorica da dopoguerra del sogno americano? Nel 2020 anche basta. Mi associo al commento di Lele: gli Stati Uniti non sono affatto questo giardino dell’Eden, osannato da un’Italietta provinciale del sud Italia che alla fine è la stessa che tu critichi.
I veri ragazzi meritevoli e talentuosi sono quelli che rimangono in Italia e si costruiscono il futuro qui. E ce ne sono a migliaia.

Eletta on February 15 2020 at 10:05AM

Piero, interessante ciò che hai scritto, ma io alla fine non ho capito cosa hai iniziato a fare a NYC quando sei andato a stare lì. Hai iniziato subito con l’agenzia di viaggi?
Manca il secondo capitolo del tuo scritto!

Roberta on February 15 2020 at 09:57AM

Il mio papà era di Salerno, lui era un medico ma mi ripeteva di fare giurisprudenza proprio perché mi avrebbe aperto tante porte. Quali non era dato sapere. Per fortuna ho seguito il cuore e oggi sono una felice psicoterapeuta, con la sua benedizione arrivata dopo anni!

Andrea Di Francesco on February 15 2020 at 09:20AM

Scienze DellA ComunicazionE. Sarà pure una facolta di bubbazza

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