GIURO DI DIRTI LA VERITÀ GIURA DI DIRMI LA VERITÀ

 

Eppe Argentino Mileto

ROMA – Non ho mai avuto paura. Non la conosco, questa belva, questa fiera, questa megera. Meglio, non ho mai avuto paura di ciò per cui tutti hanno paura: la fame, la miseria, il dolore, la malattia, la morte. Non mi fanno paura.

Quando e se verranno, saprò fare la mia parte. Non avrò alcuna difficoltà a sottrarmi alla fame, alla miseria, al dolore, alla malattia. E alla morte non posso certo dire: vai via! Prenderò quattro stracci e la seguirò. Senza porre troppe domande. Anzi, sarà un momento di verità. Di presenza di verità. Ecco, questa è l’unica paura che conosco, l’assenza di verità. Sono da sempre, per indole e per talento, un attento osservatore dell’animo umano. E ci metto l’anima, nell’osservare l’animo umano. Scandaglio anche senza volere fondali, abissi, notti di tenebra. A volte vi trovo galeoni affondati capaci di custodire chissà quali gemme. Altre vedo tutto l’orrore di cui è architetto un animo umano. L’anima no, quella è un’altra cosa. Ciò che colgo nei viaggi dentro ogni esperienza umana è la paura della verità. Di restare nudi. La fragilità di ogni impianto. Il tremore di ogni nudità. La fibrillazione di ogni atto davanti alla verità. Non vi è nulla di più ostico all’uomo della strada che conduce verso se stessi. Questa è la costante che accompagna la storia e le storie dell’animo umano. Il denominatore comune che lega le persone e le storie, la paura di conoscersi che spinge l’uno verso l’altro. Cosa non farebbe l’uomo pur di fuggire da se stesso! Pur di non staccare quel biglietto, di non prendere quell’ascensore, di non compiere quel viaggio dentro se stesso. Perché è tutt’altro che piacevole. È un viaggio di verità. E la verità quasi mai è piacevole. Perché conduce all’infanzia. È lì che si decide la partita della vita, nell’infanzia. Durante la quale scopriamo il mondo, lo annusiamo, contempliamo paesaggi umani, conosciamo gli altri, ascoltiamo voci, bestemmie, sussurri e grida che vengono dalla pancia del mondo, per poi decidere quando, come e se aderirvi. È un inferno che dell’inferno non ha la nobiltà di presenze robuste e affascinanti insieme, il mondo. È un inferno volgare di abitudini e paure, mai di riti e culti. E il luogo dove tutto si compie si chiama matrimonio. No, non è una banalità. Ma una verità. E spiego il perché da diverse angolature che sono la secante, mai la tangente, della verità. Hanno cioè più punti di contatto con la sfera della verità. Non conosco personalmente cosa significhi essere coppia, né convivenza, né tantomeno matrimonio. Ma la curvatura naturale della mia indole, la vocazione istintiva, la collocazione terza sulla scena umana mi consentono il piglio del ritrattista a scapito della leggiadria del paesaggista. Ho registrato la paura che ha la gente di restare sola. Meglio, l’incapacità di stare in compagnia di se stessa. E quel miracolo che chiamano amore, che sarebbe il vero miracolo, viene sempre espresso, rappresentato e derubricato in forme alchemiche di convivenza e catene insieme. L’incontro a due è invece il vero miracolo. Si compie con la pelle, quasi mai con le parole. È un dialogo di silenzi, di complicità, di comprensione, di desiderio, di penetrazione di anime, l’incontro a due. È solo lì che si è liberi. Solo in quel preciso momento che si compie il miracolo dell’amore. Del vero amore. Mai prima e mai dopo. Perché non c’è un prima e neppure un dopo. Il vero amore non è mai visibile, non si colloca sulla scena dell’orchestra, ma è accessibile tramite le eisodoi dell’anima, entrate e uscite sulla scena del destino. Il vero amore non si tocca, non richiede interpretazioni né applausi. Non chiede di essere visto. Anzi, non chiede e basta. Vive posato sullo spazio extrascenico del dramma della vita. Talvolta si colloca in quello retroscenico del vivere, dove il diaframma della verità ne occulta la vista al mondo che può solo intuirlo, immaginarlo, sognarlo con la potenza evocativa della parola che giunge da uno spazio immoto in cui lascia spazio all’immaginazione, ad ogni sorta di immaginazione. E ci trovi case, praterie, città, campagne, mondi emersi e sommersi, immagini edifici, cortili, palazzi, grotte, strade e mura, santuari e altari, stanze e focolari dell’anima. No, non conosce un prima e un dopo, il vero amore. Ma solo un meraviglioso, eterno durante. È durante quello sguardo, quel fulmine, quella vampa di fuoco che ci si accoppia e ci si consacra al sacro della verità, dunque dell’eternità. Perché voler a tutti i costi procrastinare quel momento e declinarlo in definizioni, dare per forza una forma a qualcosa che non ha forma? Spesso, quasi sempre sono forme perverse, vestiti inadeguati in taglie sbagliate di corpi che avanzano e mutano in anime che evolvono e involvono. Il vero amore è non dare forma all’amore. Non chiedere che nome ha, chi siamo noi due. È accettare i balzi in avanti, le improvvise frenate, le brusche cadute, le attese, accogliere gli abbandoni alternati alle riconciliazioni, gli smarrimenti e i ritrovamenti, le lacrime e le risate, è spezzare le catene, non chiedere “dov’eri?”, “con chi eri ieri sera?” all’altro, ma dirgli “ti aspetto qui”, “ci sono”, “eccomi”. Questo è l’amore che parla di verità. È non fare di un incontro una tediosa continuità ad ogni costo. Fatta di gesti che si ripetono, si ripetono, si ripetono. Il partire per forza nei week end d’estate perché non si sa più cosa dirsi a casa.

Al contrario, con rappresentazioni e forme, il magma dell’assenza di verità, scava fiumi carsici dentro ciascuno, fino ad ucciderlo di noia e insoddisfazione. Quante volte pensiamo: come era bello all’inizio! Ecco, occorre fare di ogni alba un nuovo inizio, ogni giorno. Lasciare che l’inizio duri eternamente. Non chiedere di più. Che non è accontentarsi, ma fare un salto di qualità verso la felicità. Una pietra scagliata con la fionda della felicità verso il cielo dell’ignoto. Al contrario, volendo dare forma all’incontro, volerlo ritrarlo in posa, si rinuncia alla verità. A dirsela, la verità. Talvolta a urlarsela. Altre a sussurrarla. Ma si rinuncia sotto tappeti di abitudini, tappeti di niente. Ed è lì che muore ogni incontro. Nella rinuncia alla verità. L’amore non è un giuramento. Alla gente invece interessano patti, contratti, regole, promesse per l’eternità. Parole come stabilità, certezza, concretezza, solidità spacciate per equilibrio. Peccato che il magma dell’insoddisfazione e dell’infelicità continua a scorrere nei fiumi carsici dell’anima. La gente crede che l’anima sia un dagherrotipo e l’amore il suo fotografo che celebra l’istantanea del sempre e del mai. “Ti amerò sempre”, “non ti lascerò mai” sono menzogne. Mai e sempre sono le uniche mie paure. Le parole alle quali non ho mai creduto. Perché non esistono. “Giuro di dirti la verità”, “giura di dirmi la verità” sono bestemmie. La verità è come il vero amore: non conosce giuramenti, promesse, fedi nuziali, banchetti, calici pieni. Perché vale il silenzio. L’eleganza del suo silenzio. La magia del suo incontro. Il buio del suo infinito. Le stelle della sua notte. Le parole alla sua luna, nel suo bacio d’argento.

 

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