Aldo Bianchini
SALERNO – Un mese fa ho pubblicato, sempre su questo stesso giornale, l’articolo “PIAZZA della LIBERTA’: mamma di tutte le tangenti o terreno fertile per inutili inchieste giudiziarie ?” nel contesto del quale ponevo delle domande circa l’azione apparentemente tempestosa dei molti inquirenti che hanno attivato indagini di natura giudiziaria sulle diverse gare di appalto succedutesi nel tempo per la costruzione della stessa piazza. Una piazza che, a detta di tantissimi, è stata disegnata come una specie di mausoleo per la grandezza imperitura del cosiddetto “deluchismo”.
L’articolo pubblicato il 28 aprile 2019 è stato visitato da moltissimi lettori; tra i tanti l’ing. Gaetano Perillo che ha inteso rispondere alla domanda di fondo contenuta nell’articolo: “I lavori di costruzione di Piazza della Libertà e del Crescent sono diventati la mamma di tutte le tangenti salernitane o sono invece il giocattolo su cui sbizzarrirsi con fantasiose elucubrazioni ed inutili inchieste giudiziarie ?”.
Una domanda che scaturisce dalla lunga storia di inchieste della magistratura salernitana che su quella piazza con annesso Crescent sta spendendo non solo il suo tempo ma anche, ed inutilmente, tantissimo denaro pubblico per sopralluoghi, perizie, incarichi professionali e quant’altro che, almeno fino a questo momento non hanno portato ad alcun risultato valutabile in maniera positiva; se a tutto questo si aggiunge, poi, l’in chiesta sul “Rio Fusandola” la situazione diventa addirittura paradossale e possibilmente censurabile da diversi punti di vista.
Sulla questione in generale dei lavori pubblici salernitano sicuramente ritornerò a scrivere; nel frattempo è utile leggere attentamente cosa l’ing. Perillo ha scritto nel suo commento del 29 aprile scorso:
- Trovo più che pertinente il dubbio espresso dal direttore Bianchini circa la natura di Piazza della Libertà: madre di ogni tangente o piuttosto palestra per l’esercizio di giochi di fantasia e di inchieste giudiziarie inutili?? Per quanto finora accaduto sembra opinabile il giudizio sulla veridicità dell’una o dell’altra proposizione. Successivi passi conseguenti ad altre attività giudiziarie ancora in divenire potranno consentire una più puntuale decifrazione dei fatti accaduti. Per una succinta descrizione dei fatti, anche la realizzazione della piazza e del retrostante edificio semicircolare Crescent non è sfuggita alla regola aurea … vigente in Italia: opposizioni di varia natura capaci di rallentare all’inverosimile il progredire dell’impresa. Fin dalla presentazione del rendering del progetto e della successiva esposizione di un modello rappresentativo del complesso, sono apparse numerose critiche. Sotto accusa le tecniche di esecuzione, l’estetica, il paesaggio e l’ambiente deturpati, norme e procedimenti regolamentari aggirati, equilibrio idrogeologico alterato, ecc.
Inevitabile l’approdo della vicenda nelle aule giudiziarie, dove comunque, dopo i previsti dibattimenti e i consueti lunghi tempi procedimentali, si è pervenuti ad uno stadio conclusivo, liberatorio per la ripresa dei lavori. Eppure il complesso, come già appare ora benchè non terminato, rappresenta sicuramente una riqualificazione di tutta l’area che nulla ha più a che vedere con il passato. Negli anni cinquanta e seguenti c’era un porto di dimensioni minimali, alcuni stabilimenti semindustriali e artigianali, una spiaggia libera e male tenuta, depositi e capannoni. Poi sopavvenne il degrado e l’area divenne sede di attività illecite e off limits. In tale stato, non poteva continuare a convivere con gli insediamenti situati nelle vicinanze a qualche centinaia di metri di distanza: edifici di prestigio quali il Teatro Verdi, il Palazzo di Città, la Prefettura, la Questura, l’inizio del Centro Storico, la Villa Comunale, ecc. È plausibile che chi si opponeva lo facesse perchè nostalgico dello status quo ante?? Risulta ancora da notizie di stampa che nuove istanze, in parte ripetitive, e presumibilmente seguite da ulteriori strascichi con la magistratura terranno ancora in vita certi contenziosi. A questo punto, se continua a sopravvivere il clima evocato dal magistrato in questo articolo, non è da escludere la possibilità che si debba proporre un nuovo dilemma: La “prognosi comportamentale” deve essere FAUSTA o INFAUSTA ??
Ovviamente l’ing. Perillo, parlando del magistrato alludeva all’ordinanza del gip Mariano De Luca del 1993 in cui descriveva il “clima politico affaristico” di quegli anni e di dichiarava convinto che la prognosi comportamentale dovesse essere per forza infausta.
Nulla da eccepire sul punto di vista complessivo dell’ing. Perillo, il suo pensiero è addirittura per buona parte condivisibile; in me resta l’unica perplessità derivante dal fatto che, al di là della retorica nostalgia, siccome il ricordo è la storia, si poteva benissimo lasciare (ad esempio delle chiancarelle e dei magazzini generali) in vita qualche piccola traccia che avrebbe avuto, forse, anche un effetto pittoresco nella necessaria modernità della piazza e del Crescent.
Ma di tutto questo avremo tempo e modo in futuro di parlarne.
Anche su questo tema, come in passato su altre problematiche cittadine, il dr. Bianchini ha ritenuto – bontà sua – di citare un mio commento, riportandone integralmente il testo.
Gliene sono grato per questa allargata divulgazione delle mie opinioni: come già fatto peraltro su altri temi quali il Porto Commerciale e le difficoltà legate al suo asfittico spazio retroportuale, la Porta Ovest, la deviazione del Fusandola, la piazzetta Ambrosoli, il binario ferroviario sul lungomare, il Viadotto Gatto e via Benedetto Croce, ecc.
Ora però è di attualità il completamento di Piazza della Libertà, altro esempio emblematico di come in Italia, per le vicende più disparate, portare a termine un’opera di pubblico interesse richiede sforzi titanici, una pazienza infinita, nervi saldi, una conoscenza enciclopedica di norme decreti e regolamenti, reiterati confronti e verifiche affidati a tecnici e specialisti. Un iter ovviamente che non può non approdare anche nelle aule giudiziarie, giustamente esigenti e gelose delle proprie prerogative anche sotto il profilo della tempistica occorrente per la definizione delle vertenze.
Nonostante gli incommensurabili danni che simili vicende, moltiplicate su tutto il territorio nazionale, arrecano all’economia del paese, sembra che si sia affermata una sorta di assuefazione che porta tutti, dopo lunghi brontolii e lamenti, a rassegnarsi in attesa del sospiro finale di sollievo, sempre che sia realmente l’ultimo e non insorga sul filo di lana un ennesimo intoppo.
Mi sembra che stia succedendo così per Piazza della Libertà che vede ancora in sospeso l’impresa a cui affidare i lavori di completamento del manto superficiale e degli arredi.
Credo a questo punto che debba essere interesse di tutti, favorevoli e contrari, che l’opera venga portata a compimento.
È innegabile che tutto quanto realizzato nell’area a ridosso del porto ha completamente stravolto la precedente fisionomia del luogo che, nonostante la non invidiabile condizione di degrado in cui versava, ha visto e vede tuttora dei fans dichiaratisi fautori di mantenere in vita quel dato di fatto.
In effetti, mi sembra che potrebbe essere un onorevole compromesso lasciare in vita qualche piccola traccia del preesistente. In molte città americane (ad es. Filadelfia, ma anche New York) viene fatto con una certa frequenza, lasciando in mezzo ai grattacieli edifici dei secoli precedenti.
Un’idea potrebbe essere, ove possibile, quella di valorizzare quanto ancora visibile alle spalle della Sala Pasolini, ex Cinema Diana, e della Casa del Combattente: un edificio semidiroccato di ignota destinazione che ricorda vagamente come erano i corpi di fabbrica esistenti in zona.
Se non risultasse conveniente un recupero conservativo con un conveniente inserimento nel contesto circostante, sarebbe seriamente il caso di procedere ad un suo definitivo abbattimento.
È meglio disfarsi di certi vecchi … gioielli di famiglia quando sono divenuti ingombranti e senza alcun valore.
Intervento di Fabrizio Gallanti Da Abitare del 05/04/09. Segue tutto l’articolo. (SA – 18/05/09)
Un altro disastro in arrivo.
Inviato da Fabrizio Gallanti – 05.04.2009ShareThis
L’architettura può rivelarci le direzioni verso cui va la politica? Un progetto recente di Ricardo Bofill per Salerno sembra sostenere questa ipotesi. E si può dire che la politica vada indietro nel tempo.
Mi permetto di aprire un inciso. Antonio Pascale, scrittore interessante e interessato alla città e all’architettura, in un recente saggio pubbblicato sulla rivista Limes, sostiene che la sinistra politica e culturale italiana sia ammalata di nostalgia. Avendo perso un legame di classe con il proletariato, la classe operaia, o comunque i lavoratori (il PD oggi non sapeva se andare o non andare al corteo della CGIL), i politici e intellettuali di sinistra tentano con fatica di costituire un legame con la nuova classe media italiana, della quale sono comunque espressione (Pascale in un racconto molto potente “La classe media”, appunto, pubblicato nel libro “La manutenzione degli affetti” descrive il ruolo nella modificazione dei territori urbani, Caserta in questo caso), e tentano di riallacciare dei nessi emotivi, utilizzando la retorica della nostalgia. Tutto era meglio prima, proviamo a evitare il cambiamento e a ricostituire una età dell’oro perduta. Gli araldi di questa visione sono spesso comodamente e confortevolmente ospitati sulle pagine di Repubblica (la cui casa madre, stranamente, però pubblica pure Limes). Pascale ne cita uno a modo di esempio, Pietro Citati che rimpiange il gusto dei pomodori perduti, convertendo un ricordo individuale in opinione apparentemente oggettiva e scientifica (una descrizione del metodo Citati, è contenuta nel saggio di Pascale “Scienza e sentimento“). Incapaci di proporre un’idea di sviluppo e progresso, di futuro insomma, di trasformazione, di cambiamento che approfitti delle possibilità dell’innovazione, intellettuali e politici di sinistra vivono un mondo gozzaniano di piccole cose perdute, magari da difendere con le unghie e con i denti se coincidono con il benessere personale. Questo gusto passatista, che si catalizza in fenomeni, comunque alla resa dei conti di consumo come altri, come Slow Food (del quale Pascale, che è agronomo di formazione, è molto critico) sembra che alligni anche nelle teste degli amministratori locali, eletti con liste o partiti del centrosinistra. E si manifesta nelle scelte urbanistiche e architettoniche. La nostalgia pare duplice: per forme della città e dell’organizzazione dei luoghi che non hanno più molto a che vedere con la vita di oggi (il portico, la piazza, la corte, il viale alberato) e per linguaggi espressivi impressi alle singole opere d’architettura desueti, anacronistici. Abbiamo già scritto dei progetti sbagliati di Mario Botta per Genova e per Sarzana, repertori sfiatati di forme e di linguaggi reiterati dall’autore in maniera meccanica (in questo caso ci si affida a architetti che di loro hanno una forte nostalgia di sé stessi, e che quindi ripetono quattro o cinque artifizi espressivi sempre e comunque, assolutamente indifferenti al luogo nel quale operano). Pensavamo che si fosse raggiunto un punto molto basso nella relazione tra potere politico, cittadinanza, progettazione architettonica e uso del territorio. Ma dopo aver visto (sul sito di Repubblica, sarà un caso?) una serie di foto di un plastico per un complesso di edifici di Ricardo Bofill a Salerno, dobbiamo ricrederci: era possibile fare peggio.
L’intervento di Bofill proposto per il lungomare di Salerno è una rivisitazione del suo intervento di Cergy Pontoise nella periferia parigina del 1985 (dove Eric Rohmer aveva ambientato un film stupendo, “L’ami de mon amie“): un palazzone a semicerchio, aperto verso il mare.
Venticinque anni dopo il modello francese è trasposto come se nulla fosse sulle rive del Mediterraneo, tra l’altro con una versione più antiquata, neppure con il vetro specchiante a imitare le colonne, ma con dei bei muroni belli spessi. Appare come un connubio perverso tra architetture piacentiniane-giovannoniane e il meglio dell’architettura stalinista. Rappresenta, in tutto e per tutto, una idea di città, di rapporto con il paesaggio e di idea degli spazi, che era già arretrata 80 anni addietro. In realtà è un progetto così ridicolo da rasentare il sublime.
Sarà la piazza sul mare più grande d’Europa (chi dice queste cose, come fa a dimostrarle? o ci sarà un notaio del Guinness dei primati che controllerà con una bindella da geomentra, come per la piadina più grande del mondo o l’hot dog più lungo?) e infatti, non sapendo bene cosa succederà in quello spiazzo gigantesco, nel plastico appare una sorta di gigantesca foglia di palma stilizzata, che ricorda un po’ il simbolo della Lega Nord. Tra l’altro il nome “Piazza della Libertà”, lascia supporre un tentativo di sincretismo politico.
Il palazzo di Ceausescu non era molto diverso da questo edificio, pure nella applicazione di paramenti classicheggianti alla pelle degli edifici.
Ecco, ancora una volta all’opera il principio della nostalgia. E infatti il sindaco di Salerno, come quelli di Genova e Sarzana è di sinistra (a onor del vero il sindaco Vincenzi con il progetto Botta a Genova c’entra poco, e quando deve decidere lei sulla città fa bene, avendo chiamato Richard Burdett).
Solo che mi pare che a Salerno (anzi Salernia, come Sabaudia, Tirrenia e altre città di fondazione fascista) agisca anche una forma di schizofrenia, per cui si assembla un piano regolatore, tutto sommato corretto, di Oriol Bohigas, con alcuni pezzi forti di architetti inconciliabili tra loro: Zaha Hadid, con la sua stazione marittima, un centro commerciale di Jean Nouvel e la cittadella della giustizia di David Chipperfield. Sono tutti edifici che hanno preso gli steroidi, grandi e grossi (a Milano si aggiunge, “e ciula” a Genova “e abelinato”, a Salerno?), ma che non possiedono rapporti tra loro, una collezione di oggetti incongrui. E invece dell’intervento delicato di Kazuyo Sejima, che aveva vinto il concorso per la riqualificazione del centro storico di Salerno, nel 1997 che ne è stato?
Le foto del plastico, che possiede una qualità scadente, da club minore di ferromodellismo, rendono evidente, se ce ne fosse stato ulteriore bisogno, l’attuale incapacità progettuale di Bofill, che solo sa assemblare come in un collage figure vuote di senso e contenuti, ereditate dalla storia dell’architettura e sconnesse dalla vita e dalla realtà. Tra l’altro i progetti giovanili di Bofill sono stupendi!
Uno si domanda, per sciovinismo retrogrado: ma con tanti perfetti architetti mediocri in Italia, passatisti per vocazione o per necessità, c’era bisogno di andare a trovarne uno all’estero?
Poi dato che è proprio chiamato “Il Crescent”, vorremmo ascoltare un po’ delle pronuncie del nome di siffatto capolavoro: siccome amiamo la comicità campana, il genio vitale dell’ironia dei sottomessi, siamo sicuri che “Il Crescent” sarà una fonte infinita di bellissimi giochi di parole, che per pudore (non della volgarità ma della scarsa conoscenza del dialetto) non osiamo scrivere qui.
Fabrizio Gallanti è membro fondatore del collettivo gruppo A12 (1993-2004) e dello studio di ricerca di architettura Fig-Projects (2003-Presente). Ha insegnato progettazione dell’architettura e teoria dell’architettura in Cile (Pontificia Universidad Católica e Universidad Diego Portales, 2002-2008) e in Italia (Politecnico di Milano, 2007-2010). Ha conseguito il M.Arch presso l’Università di Genova nel 1995 e il dottorato di ricerca. al Politecnico di Torino nel 2001. Fabrizio ha scritto per riviste internazionali come A + U , Domus , San Rocco , Clog e The Journal of Architectural Education . Tra il 2007 e il 2011 è stato redattore di architettura e web editor di Abitarerivista. Tra il 2011 e il 2014 è stato Associate Director Program presso il Canadian Centre for Architecture a Montreal, Canada, dove è stato responsabile per mostre e programmi pubblici ed educativi. Mentre era al Centro ha curato mostre sul lavoro dell’architetto portoghese Alvaro Siza e l’attuale condizione urbana di Montreal. La ricerca di Fabrizio si concentra sul rapporto tra economia, territorio e trasformazione urbana. Questi temi sono al centro del suo progetto di ricerca Tortona Stories , che analizza la condizione della campagna in Italia, attualmente in mostra alla 14. Mostra Internazionale di Architettura La Biennale di Venezia.
Ho postato l’articolo del prof.Gallanti solo nella provinciale Salerno ,sul Crescent . Un opinione più che autorevole…
Non trovo sia il caso di interrogarsi perché il sig. Marco Longobardi abbia sentito, a più di un anno e mezzo dalla pubblicazione dell’Articolo “PIAZZA DELLA LIBERTA’: le tante verità”, il bisogno di intervenire, pur senza alcun commento di merito, riportando integralmente una nota dell’arch. Fabrizio Gallanti ricavata da Abitare del 05/04/2009 e facendoci conoscere di quest’ultimo tutte le benemerenze accademiche professionali acquisite nel campo dell’architettura e dell’urbanistica.
Il titolo “Un altro disastro in arrivo” ne preannuncia già il contenuto. Comunque, dopo averlo letto, ho trovato corretto che non si sia esercitata da parte della Redazione – immagino – alcuna resistenza alla pubblicazione di quanto sopra.
La libera espressione delle proprie idee e il pieno convincimento della bontà delle proprie opinioni sono infatti prerogative di cui fortunatamente possiamo ancora avvalerci.
Le limitazioni in tal senso hanno riguardato generazioni di persone, si spera, lontane nel tempo. E viene comunque da pensare ad esse, dal momento che il Crescent viene etichettato come un connubio con “il meglio dell’architettura stalinista” oppure che non era molto diverso il Palazzo di Ceausescu “pure nella applicazione di parametri classicheggianti alla pelle degli edifici”.
Con questo ovviamente non intendo negare la possibilità di critica, nel bene o nel male, verso qualsiasi opera che veda la luce ad opera della mente umana.
Ho esercitato le mie competenze tecniche in un campo che potrebbe anche avere qualche attinenza con l’architettura. Ma non intendo farlo, anche perché i canoni per giudizi comparativi rispondono a logiche diverse.
Neanche intendo addentrarmi nella esplicitazione di un lessico specialistico e tanto meno avventurarmi in un excursus sul tema dell’urbanistica che viene percepita come impossibilitata a fare a meno delle dipendenze della politica.
Mi sono limitato a leggere, in ogni caso con interesse, la critica severa verso un progetto definito “così ridicolo da rasentare il sublime”, anche se mi lascia perplessa la sua formulazione avvenuta solo attraverso la fotografia di un plastico, peraltro “di qualità scadente, da club minore di ferromodellismo”.
Trovo anche normale che stroncature e rivalità fra architetti e altri artisti non siano una novità.
Un solo,esempio: Bernini e Borromini, anche se appartenenti ad un altro pianeta!
Caro ing.Perrillo ,lei è ingegnere , il prof.Gallanti è urbanista ed architetto .Ogni uno il suo mestiere…
Egr. sig. Longobardi, ho riletto il mio commento e, con tutta sincerità, non ho trovato alcuna frase o periodo che potesse evidenziare qualche mia intenzione di andare al di là delle mie competenze per invadere quelle dell’arch. Gallanti. La invito a rileggerlo e potrà constatare che, viceversa, ho riconosciuto all’architetto la piena facoltà di esercitare tutte le sue competenze, di tipo accademico e maturate sul campo, per esprimere i suoi giudizi sull’operato del collega spagnolo e per dare una valutazione di basso profilo all’edificio semicircolare costruito intorno alla piazza della Libertà.
Rivendico quindi il mio diritto, come quello di chiunque altro, – e ciò non significa travalicare la propria professionalità – rivendico, dicevo, il diritto di entrare nel merito delle affermazioni di chiunque esponga concetti e idee perché siano portate a conoscenza del pubblico. Nei limiti del rispetto della deontologia professionale, nessuno potrà evitare il formarsi di conseguenti convincimenti, pro o contro che siano.
In ogni caso però è inaccettabile l’atteggiamento di chi invoca l’esclusività del suo sapere e invita il o i suoi interlocutori a restare nell’orticello delle proprie competenze, quasi si trattasse di una “lesa maestà”.
Non posso infine esimermi dal chiedermi perché mai certi argomenti sono tornati alla ribalta dopo quasi due anni.
Caro Perrillo, ho letto poco tempo fà questo articolo e l’ho commentato.Cmq se il prof.Gallanti non le va bene , può sempre leggersi il prof. Montanari..L’INSOSTENIBILE PESANTEZZA DELLE OPERE DELLE ARCHISTAR – IN ITALIA, GLI EDIFICI, SEMPRE PIU’ BRUTTI E INUTILI, PROGETTATI DAGLI STRAPAGATI ARCHITETTI DI GRIDO SONO DIVENTATI INSOSTENIBILI. IN TUTTI I SENSI…
Oggi i rappresentati politici della comunità non hanno quasi mai né la cultura né la sollecitudine sociale necessarie per intavolare un vero dialogo con le star che ingaggiano: le quali, dal canto loro, non sono quasi mai (e Renzo Piano è un’eccezione positiva) interessate alla sfida di un limite sociale…
Condividi questo articolo
Condividi su Facebook
Condividi su Twitter
Condividi su Google+
Invia in email
Tomaso Montanari per il “Fatto quotidiano”
CALATRAVA
CALATRAVA
Il ponte di Calatrava a Venezia – brutto, fuori contesto, costosissimo, antifunzionale e beffardamente intitolato alla Costituzione – è il simbolo di un fallimento più generale. E non è un problema del solo Calatrava (il cui studio è ormai un’industria multinazionale del genere faraonico: basti pensare alla Stazione di Reggio Emilia, o alla grande incompiuta della Città dello Sport di Roma), e non è solo un fatto di costi mal calcolati.
Il contenitore dell’Ara Pacis disegnato dall’americano Richard Meier, ottimo per Los Angeles, è del tutto incapace di avere un dialogo con lo spazio e l’architettura di Roma. L’uscita degli Uffizi, disegnata dal giapponese Arata Isozaki e da tre lustri in attesa di esser costruita, è un triste compitino postmoderno concepito da qualcuno che Firenze l’ha conosciuta solo in accademia.
Per non parlare dell’inutilizzabile Maxxi di Zaha Hadid, del santuario di Padre Pio firmato da Renzo Piano e sfigurato da una decorazione inguardabile, dell’imbarazzante cappello calato da Mario Botta sulla testa della Scala a Milano, del terrificante cubo di cemento che sarebbe la chiesa di San Paolo costruita da Fuksas a Foligno.
E altre meraviglie sono in arrivo: l’olandese Rem Koolhaas si appresta a “rifare” il rinascimentale Fondaco dei Tedeschi a Venezia, mentre sarà di Nor-man Foster la stazione ipogea del Tav per cui Firenze aspetta di esser sventrata. Non ci sono, infine, parole per definire l’osceno ed immenso Crescent, il casermone a forma di mezzaluna affidato da Vincenzo De Luca a Ricardo Bofill, e capace di distruggere insieme la forma urbana e il paesaggio di Salerno.
Ma perché, specialmente in Italia, gli edifici progettati dalle cosiddette archistar sono diventate il simbolo di un’architettura insostenibile, nel più ampio ventaglio semantico della parola?
Proprio Renzo Piano ha detto che le nostre periferie hanno urgente bisogno di essere “rammendate”. Per rimanere nella stessa metafora, potremmo dire che è come se, avendo un guardaroba tutto composto di abiti laceri, sporchi, umilianti (l’architettura e l’urbanistica delle nostre periferie), invece di pensare a sostituirlo, preferissimo usare i nostri soldi per comprarci ogni tanto un abito griffatissimo: ma senza provarlo, anzi senza nemmeno vederlo prima, e scoprissimo solo dopo di non poterlo usare, e dunque di aver fatto un pessimo affare.
Fuori di metafora, la radice del disastro urbanistico e quella del fallimento delle archistar è la stessa: ed è la rinuncia a una progettazione di lungo periodo, seria, studiata, partecipata, condivisa. Almeno a partire dai primi anni Novanta, le nostre città sono cresciute attraverso programmi straordinari, stralci, deroghe, legge speciali: tutte corsie preferenziali che hanno ridotto la progettazione della città ad una sommatoria di singoli edifici irrelati. Compresi quelli affidati alle stelle, fredde e distanti, del firmamento internazionale dell’architettura.
La stessa retorica dell’architetto come star inarrivabile rivela quanto sia profondo lo scollamento tra il “genio” e la comunità che è insieme committente e destinataria delle opere di quel genio. È solo la lente distorta della modernità e della postmodernità che ci porta a vedere la storia dell’architettura come una galleria di giganti isolati e irrelati. Perché Brunelleschi, Michelangelo, Palladio o Borromini non sono le archistar della storia dell’arte: la grandezza della loro opera è invece il frutto di un confronto serrato, fecondo e a volte anche aspro con i committenti delle singole architetture.
La libertà dell’artista non era un dato assoluto, ma un margine sottile continuamente contrattato e comunque sottoposto alla pubblica utilità e ai fini del committente e della comunità.
Oggi i rappresentati politici della comunità non hanno quasi mai né la cultura né la sollecitudine sociale necessarie per intavolare un vero dialogo con le star che ingaggiano: le quali, dal canto loro, non sono quasi mai (e Piano è un’eccezione positiva) interessate alla sfida di un limite sociale.
Come ha scritto Vittorio Gregotti, “il nesso tra pratica artistica e politica in quanto dottrina del dialogo sociale sembra essersi dissolto”. Ed è un paradosso che la progettazione della città non sia più un fatto politico: perché politica viene da polis, ed è cioè l’arte di costruire la città, la comunità dei cittadini. Certo, tutto questo ha invece molto a che fare con la politica deteriore, e con le amministrazioni corrotte e incapaci: ma non è una grande consolazione
Caro Longobardi. Può anche ritenere che il Prof. Gallardi “non mi va bene” e quindi invitarmi a leggere il lungo articolo pubblicato dal Prof, Montanari sul “Fatto quotidiano”. Con lo stesso metro di giudizio sono certo che concluderà che anche quest’ultimo autore non mi va bene.
Tengo però a precisare che non si tratta di stabilire se questa o quella idea può andar bene o meno. Dal mio punto di vista anzi non vanno affatto rigettate le opinioni di chi le espone con toni che non collimano con quelle altrui. Ma questo non significa che va assolutamente stabilita una gerarchia di valori, per cui c’è da formalizzare la prevalenza di alcuni sugli altri.
Il lungo elenco fatto dal Prof. Montanari di “archistar” (absit iniuria verbis) stranieri che, a suo giudizio, hanno creato in Italia danni irreparabili sotto il profilo estetico, paesaggistico e funzionale, riguarda opere architettoniche che, a mio parere, hanno una valenza soggettiva. Si può aderire alle argomentazioni di un critico, sia pure di fama, ma non si può escludere che altri si esponga con giudizi estetici completamente diversi.
L’arte è fatta così e nel valutarla si deve prescindere da considerazioni che non diano priorità agli aspetti estetici e quindi al sentire dei singoli osservatori.
Questo vale soprattutto quando una forza determinante nella formulazione di certi giudizi è data da considerazioni di carattere socio-politico.
Non sta a me evidenziare quanta partigianeria esiste in questo settore e come essa renda, spesso e volentieri, ogni giudizio non propriamente al di sopra delle parti.
Spero con questo di avere sufficientemente esposto il mio pensiero sull’argomento che stiamo trattando.
Grato comunque per avermi fatto conoscere gli scritti di due autori, finora per me inediti.