Felice Bianchini junior
(corrispondente – notista politico)
ROMA – È passato un anno dalle fatidiche elezioni del “cambiamento”. Dopo un anno e varie peripezie, il PD, uno degli sconfitti, affronta le sue elezioni del cambiamento. Elettori diversi, candidati diversi, ma ha vinto ancora questo vento del cambiamento che non si riesce mai pienamente ad identificare, a descrivere. È come se fosse diventato un fattore culturale dello stivale: cambiare.
Votano circa un milione e duecentomila elettori, numeri che mantengono all’interno della media gli elettori alle primarie PD, dando a prescindere una soddisfazione a chi ha organizzato e promosso la votazione. Stravince Nicola Zingaretti, già governatore della Regione Lazio. I suoi avversari, Martina a rappresentare una sorta di “centro”, di via di mezzo, e Giachetti, renziano in tutto e per tutto, hanno rappresentato ciò che doveva essere superato, cambiato. Quando hai contro chi vuole mantenere le cose come stanno e sventoli il cambiamento, hai vita più che facile – ce lo insegnano, del resto, i gialloverdi.
Cosa significhi, cosa comporti questo cambiamento nel PD ancora non è ben chiaro. Le parole di “insediamento” di Zingaretti sono di speranza e di unità, oltre che di cambiamento, di rottura con il passato. Ma proprio dal PD, nell’ultimo anno, sono arrivati i più disparati moniti di come il cambiamento non si faccia a parole.
C’è chi è scettico, come sempre, ma poco importa a chi vuole semplicemente fare una “fotografia” della situazione e riportare ciò che viene detto e cosa può effettivamente comportare. Credo che innanzitutto sia utile parlare del tempo che ci è voluto: un anno, “meglio tardi che mai” diranno alcuni fautori del cambiamento. Personalmente, credo che “cambiare” prima sarebbe stato inutile, forse controproducente; serviva cogliere il momento, come quello attuale, in cui la fiducia nel cambiamento più grande, quello promesso dai governanti, sarebbe venuta meno, o quantomeno avrebbe vacillato. E così è stato: Zingaretti arriva in un momento in cui la fiducia si è smorzata, cedendo il passo a un velo di disillusione.
Immaginiamo delle elezioni interne al PD nel periodo immediatamente successivo al 4 marzo 2018: credo sarebbero finite nel dimenticatoio e non avrebbero avuto la stessa forza che potenzialmente possono avere quelle appena concluse.
Detto ciò, quelle di Zingaretti restano parole, belle parole, ma sempre parole, o se si preferisce promesse, tanto quanto quelle dei gialloverdi. Chi pensa che Zingaretti risolverà i problemi del paese e abbia la forza di contrastare chi ha il potere adesso credo debba andarci piano e aspettare che si assesti la situazione all’interno del partito. Non è irrilevante, innanzitutto, il rischio di una scissione, che smonterebbe subito la promessa di unità: anche se Giachetti e Renzi si complimentano e augurano buon lavoro, i renziani non stravedono per il fratello di Montalbano, ad esempio perché, anche se a parole nega di voler parlare con il M5S, dà l’impressione di non essere poi tanto contrario all’apertura. Dentro il PD sorridono, si incensano e si ringraziano l’un l’altro, mentre dietro si accoltellano: un classico a cui ormai siamo abituati.
C’è poi un aspetto che mi ha particolarmente colpito, e che contribuisce a definire quale sia la “linea Zingaretti”, ossia discontinuità con il passato, certo, ma non del tutto: in sostanza Renzi va superato, ma il restante passato non è da buttare. L’ombra di Romano Prodi copre parzialmente il viso sorridente del neo segretario, un’ombra che si ricollega alla visione europea che il nuovo segretario deve esprimere definitivamente, insieme con il suo partito. A tal proposito viene messo di fronte alla questione capolista: Calenda o Pisapia alle europee? Già, perché il primo vero appuntamento (oltre alle elezioni lucane) è quello europeo, al quale Zingaretti è convinto di fare bella figura. Ma, tralasciando le prospettive del risultato, e ritornando alla questione Calenda-Pisapia: la logica del cambiamento, se seguita alla lettera, vorrebbe che si scegliesse il primo. Ma con Calenda, più che di cambiare, si tratterebbe di rinnegare completamente anche ciò che lontanamente potrebbe essere accostato al mondo della sinistra. Con Pisapia, invece, si andrebbe sull’usato sicuro, una scelta comprensibile, ma non lontana dai “non-cambiamenti” in termini di nomi e fatti che lo stesso PD ha criticato al governo.
“Il simbolo non è un dogma”, aveva dichiarato Zingaretti un mese fa, aprendo a un nuovo soggetto alle europee. Questo confermerebbe la predetta morte del PD, ormai solo formalmente un partito. “Ci avevano dati per morti troppo presto”, dice, quando in realtà con il suo cambio di rotta non farebbe altro che dare il colpo di grazia a un soggetto politico che ha preso voti per politiche che adesso vengono rinnegate: un gesto più che condivisibile sia chiaro, ma non si può pretendere di cambiare il PD, mantenendolo in vita così com’è, sarebbe un controsenso. Non si può credere di poter cambiare a “costo zero”. Ma soprattutto c’è bisogno di capire quanto il PD, senza un “lifting” riesca ancora ad attrarre. In questo momento Salvini può ancora rilassarsi, perché così come stanno le cose, non sembra che gli equilibri possano essere stravolti.
Se anche al nuovo segretario basta arrivare secondi, allora è tutto a posto; ma se è alla vittoria che punta, c’è bisogno di qualcosa in più. Sicuramente, tolti gli astenuti, parte di chi non gradisce questo governo guarderà con favore al cambiamento nel PD. “Torneranno” dice dei disillusi Zingaretti, che sembra tranquillo, anche se ha sulle spalle non poche responsabilità. La più grande è non deludere, perché significherebbe lacerare ancora di più la fiducia di quella parte del paese che ancora crede in un’alternativa proveniente dal ceppo PD. A quel punto, non credo ci saranno altri Zingaretti in grado di rimettere insieme i pezzi.