Felice Bianchini junior
(Corrispondente – notista politico)
ROMA – Tempo di pranzi e di ricuciture all’interno dei pentastellati. Nell’ultimo periodo, le figure del garante Grillo e del “padrone” Casaleggio hanno occupato ampio spazio all’interno del dibattito parlamentare ed extraparlamentare.
Il primo è stato vittima di proteste, talvolta anche insensate, con richieste di dimissioni, accuse di tradimento, e via discorrendo. Nulla di nuovo, insomma. E in fin dei conti è proprio questo che non piace, che fa arrabbiare: quando i 5 stelle non ostentano il loro non essere come gli altri, ma anzi agli altri somigliano, quando non appaiono come novità, come discontinuità, ecco che il fervore della base elettorale si accende, ma per andar loro contro.
Sul secondo c’è poco da dire, poiché non è mai presente, sempre dietro le quinte, il che alimenta i sospetti di “burattinaggio”. Ma anche questi non sono una novità. Se fosse presente verrebbe accusato di ingerenza. Non si entra e non si può per svariati motivi entrare nel merito, quindi si rimane sulla superficie.
Chi “appare” è Di Maio, forse anche troppo per certi versi, ma non potrebbe fare altrimenti, vista la costanza del compagno di governo, che si prenderebbe in sua assenza tutta la scena.
Il ministro dello sviluppo economico e del lavoro, vicepremier, capo politico del M5S, come si evince dalla lunga lista di cariche, è soffocato dalle responsabilità (al di là della sua predisposizione e capacità di tener loro fede, giudizio che lasciamo ad altri). Dopo il risultato insoddisfacente in Abruzzo e Sardegna, Di Maio cerca riscatto, consapevole che più si va avanti, più il suo movimento richiederà un radicamento territoriale, che solo con i risultati nazionali non si ottiene. Ma questo radicamento territoriale, se conseguito, porterebbe il MoVimento ad essere sempre più simile a un partito: bestemmia per i duri e puri della prima ora, che già non vedono di buon occhio anche il solo prendere in considerazione questa possibilità.
Non si sa bene quale siano state le portate del pranzo a casa Casaleggio: si parla di regola del secondo mandato, di organizzazione territoriale. In ogni caso, i problemi e le possibili soluzioni sono bene o male alla luce del sole: la scelta è tra il sopravvivere, rinunciando ad alcuni dei vecchi principi, o il perire, rimanendo coerenti. Di solito, mi insegnano, in politica si opta per la prima. Ma credo sia riduttivo. A prescindere dalla simpatia per i grillini (si possono ancora chiamare così? C’è chi dice di no), la questione è forse ancora più profonda: rinnegare tutto ciò che è stato fatto negli ultimi 8-9 mesi, innanzitutto l’alleanza governativa, scontando la pena del dover lasciare tutto in mano a Salvini, probabilmente, in tal caso, accompagnato da Berlusconi. L’alternativa è andare avanti, “tirare dritto”, come piace dire ai due leader, e affrontare quelle che sono le conseguenze che comporta il proseguire, tra le quali ci può essere anche quella di dover riorganizzare la struttura del M5S, finendo per farlo somigliare a un partito.
Considerando che in questo momento ancora non è partito il loro progetto più importante, ossia il tanto chiacchierato reddito di cittadinanza, e che prima di poter dire “sì, ha funzionato” o “no, è stato un disastro” ci vorranno dei mesi, l’idea di mollare tutto ora, come anche a Maggio, significherebbe un vero e proprio suicidio politico. Tant’è che siamo portati a dire che, se dovesse ritrovarsi di fronte a risultati deludenti alle europee, vero ago della bilancia, Di Maio farà finta di niente, incrociando le dita. Questo perché è il suo alleato ad avere “il dito sul pulsante”, ma che continua a dire di non volerlo premere. E il fatto che non voglia premerlo (o almeno dica di non volerlo premere) non stupisce, a dire il vero: Salvini è sfamato e soddisfatto dagli alleati di governo, mentre viene coccolato e incensato dai suoi alleati di coalizione, senza che debba rispondere di niente a nessuno. La questione è quanto e come è legato ai suoi alleati.
Al di là del contratto, che è la forma della loro unione, i due giovani leader si sono ritrovati insieme sostanzialmente seguendo la logica de “il nemico del mio nemico è mio amico”, uniti da uno spirito anti-sistema, “anti-vecchio” potremmo dire, nella misura in cui “ciò che è vecchio” è non tanto “ciò che c’è da più tempo”, quanto più “ciò che (chi) ha tenuto le redini” prima di loro (sia chiaro che non rientra tra questi la vecchia Lega di Bossi alleata di Berlusconi, poiché era troppo nordista e troppo piccola, in pratica totalmente diversa rispetto a quella costruita oggi da Salvini, la quale possiede una rilevanza politica che quella di Bossi probabilmente neanche sognava, e forse neanche voleva). Ma risponde a questa definizione sia la vecchia divisione tra ciò che adesso chiamiamo PD e ciò che chiamiamo FI, con i rispettivi contorni (di cui ha fatto parte, come detto, anche la Lega), sia l’attuale assetto del potere detenuto a livello europeo. La Lega si è rispolverata in chiave anti-sistema, riproponendo la battaglia contro Roma in una nuova chiave anti-Bruxelles. Di Maio e i suoi, allo stesso modo, ripropongono le battaglie agli sprechi ed alla casta parlamentare, sostituendo Montecitorio con Strasburgo, e i politici italiani ladri con i burocrati di Bruxelles.
In gioco, dunque, non c’è solo il regolamento interno dei 5 stelle, come molti credono e vogliono far credere, ma qualcosa di un tantino più grande.
Se l’obiettivo dei due leader è spazzare via quel che è vecchio, necessariamente il MoVimento dovrà darsi da fare sul territorio, dando vita anche a livello locale al nuovo bipolarismo che è stato da alcuni predetto. In caso contrario, rischierebbe addirittura di farsi risucchiare da un lato dall’alleato di governo, e dall’altro da una possibile nuova alternativa di segno opposto a Salvini, o dalla semplice astensione.
In questo momento, il nuovo bipolarismo è possibile perché l’alternativa è quasi inesistente. Tutto quello che si muove in opposizione è ancora troppo debole per potersi imporre, ed è altrettanto fragile.