Aldo Bianchini
SALERNO – Parlare di giustizia in astratto, ovvero di buona e cattiva giustizia in concreto, è sempre un esercizio molto difficile e, comunque, pieno di ostacoli a volte insormontabili.
Questa volta provo a scrivere di giustizia con l’aiuto irrinunciabile del noto avvocato penalista Cecchino Cacciatore che spesso impreziosisce questo giornale con i suoi interventi sempre molto professionali e sicuramente costruttivi.
Scrive un magistrato che se la certezza del diritto è persa, finisce per provocare il crollo di ogni valore fondamentale. |
Una dichiarazione molto forte che rappresenta in grandissima proporzione la realtà dei fatti; ed è da qui che bisogna partire per dare sostanza al ragionamento che segue, frutto delle riflessioni fatte, ripeto, insieme all’avv. Cecchino Cacciatore.
Una sterminata legislazione penale (35.000 disposizioni delle 150.000 di altre materie) – aggiunge lo stesso magistrato – fatta di leggi contraddittorie, emergenziali, rappresenta il coacervo di elementi che sanciscono l’inesistenza di una giustizia che funzioni, per tutti e per ogni tipo di reato, allo stesso modo; come a dire che la legge è uguale per tutti … ma non tutti siamo uguali dinanzi alle legge.
Conclude quel magistrato che così si finisce col ripetere la triste storia dei personaggi che animarono la storia di Crainquebille (Una satira graffiante della giustizia ingiusta che, con cieca stupidità, colpisce i deboli e gli innocui; Jérôme Crainquebille è un povero venditore ambulante di verdure a Parigi. Accusato di aver insultato un poliziotto, si ritrova vittima degli ingranaggi di un sistema giudiziario kafkiano. Quando finalmente è uscito di prigione, i suoi clienti borghesi lo evitano. Sul punto di suicidarsi per la disperazione è salvato da uno piccolo strillone orfano, La Souris, ancora più povero di lui), protagonista di un romanzo di Anatole France, i quali interpretavano la legge a modo proprio.
Di questi giorni l’ennesima denuncia dell’orrore della non-giustizia illiberale: un milione e mezzo di persone che attende 4 anni per poi essere assolta. Con un commento a margine, col quale si stigmatizza il racconto al rovescio che si fa della realtà: ci si indigna se i processi prescritti arrivano al 9%, mentre si resta impassibili se i processi ingiusti superano il 50%. Questo è, purtroppo, il livello di percezione della cattiva giustizia nel nostro Paese.
Perché di orrore si tratta – denuncia sempre quel magistrato -, annidato in una piega tenuta nascosta della nostra democrazia; un orrore carico di dolore, privazioni, lutti, ferite per le famiglie e che produce frustrazione, rabbia, desiderio di vendetta, contribuendo ad avvelenare ancora di più il clima di una comunità già esasperata dal declino economico e civile.
Dunque, quando si parla dei problemi della giustizia penale, ecco, bisognerebbe girare lo specchio nel verso giusto: 150.000 persone che ogni anno, un milione e mezzo in dieci anni , che attendono in media 4 anni dalla notizia di reato per essere assolti già all’esito del primo grado sono la questione da affrontare senza più ipocrisie, velate da dati solo quantitativi del cosiddetto arretrato giudiziario da smaltire, i quali ottundono la vera percezione del fenomeno sotto il più umano aspetto qualitativo dei troppi innocenti mandati a giudizio!
Il giusto processo merita di più in termini di civiltà laica: la speranza ragionevole che un’accusa si rilevi infondata, dopo che elementi di indagine seri siano stati seriamente raccolti; la preghiera cui invece ci si affida perché avvenga il miracolo che tanto si verifichi all’inizio della cosiddetta filiera giudiziaria, quando già una notizia di reato appaia bizzarra e priva di successo, non appartiene alle cose degli uomini.
Il fatto che alcuni magistrati a loro volta comincino a rappresentare quell’orrore (il presidente del tribunale di Milano, quello di Torino, il presidente della corte di Venezia, il procuratore generale di Salerno) è indice che qualcosa si muove.
Chissà se un dibattito vero – cioè che ribalti il racconto della giustizia in modo da scorgerne il suo volto e non più la nuca – arrivi a sottolineare l’abuso della custodia cautelare, la necessità di ricondurre il diritto penale dal reo al fatto, ripensare la perniciosa legislazione antimafia, fondata sul sospetto e costruita sulle confische, limitare gli interventi a piedi uniti del processo penale nella vita della democrazia, prevedere depenalizzazioni, ridurre i tempi processuali e aumentare i diritti della difesa, ripudiare il principio del presunto colpevole.
Fare questo significherebbe che nelle statistiche facciano capolino i destini delle persone.
Il fatto è che le statistiche – quelle nelle quali rientrano i tanti processi (che fanno numero senza tanta fatica) all’anziana contadina imputata per <<furto di zappa con dente mancante>> -, cui gli stessi magistrati sono drammaticamente sottoposti ai fini della loro valutazione sono pratica e burocratica gestione.
Si sa la gestione è controllo e il controllo – politico! – comporta anche ridurre gli spazi di autonomia e indipendenza, i due pilastri di una magistratura libera e democratica.
In Una teoria della giustizia, Rawls scriveva che la giustizia è il primo requisito delle istituzioni sociali, insieme alla verità. Di conseguenza, leggi ed istituzioni devono essere riformate o abolite perché ingiuste se non veramente date per il benessere della società nel suo complesso.
C’è benessere nel sistema giustizia che, grottescamente, condanni gli innocenti ad essere assolti quando non dovevano nemmeno essere processati?