AVVOCATURA: “Ceterum censeo Patrocinium esse delendam”

 

 

 

 

 

Aldo Bianchini 

SALERNO – Un po’ di fantasia nella vita non guasta, soprattutto se si pratica il non facile mestiere del giornalista, altrimenti è inutile praticarlo.

Con questo stato d’animo ho letto e riletto la sentenza n. 32781/18 pronunciata il 4 dicembre 2018 dalla Suprema Corte di Cassazione – a sezioni unite civili – su una questione tutta interna all’avvocatura in seguito ad uno scontro in punta di diritto tra un gruppo di avvocati regolarmente eletto il 6 e 7 ottobre 2017 a far parte del Consiglio Forense di Agrigento  e lo stesso Consiglio che li aveva dichiarati decaduti per gli effetti dell’art. 3 – comma 3 della Legge n. 113/2017 del 12 luglio 2017. Come spesso accade, tra ricorsi e controricorsi, dopo una successiva pronuncia del Consiglio Nazionale Forense, la vicenda è approdata in Cassazione chiamata a dirimere, sempre presumibilmente in punta di diritto, il cavillo interpretativo (grosso come una montagna) dell’applicabilità di una legge ai periodi precedenti alla sua stessa emanazione. Difatti i consiglieri buttati fuori dall’ordine avevano al loro attivo già due consiliature che, secondo la nuova legge, ne impedisce una terza.

E ritorna l’antica domanda: “Ma la legge, una qualsiasi legge, non si applica più dal giorno successivo alla sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale ? e dato per assunto che la Legge 113/2017 è stata pubblicata sulla G.U. il 20 luglio 2017 perché il Consiglio Forense di Agrigento ha inteso applicarla anche per il periodo precedente ?”.

Lo scontro tra avvocati eletti e cacciati, consiglio Ordine di Agrigento e Consiglio Nazionale Forense è approdato, come dicevo, in Cassazione.

E qui si innesta la fantasia del giornalista, cioè la mia fantasia, che partendo dal fatto che il palazzone della Cassazione sorge a pochi passi da quello che fu l’Antico Senato Romano e considerando che la Cassazione nell’età moderna ha assunto il vero e proprio ruolo di “Senato-Censura della Giustizia” ho immaginato la seguente scena:

Lo scenario bianco marmoreo dell’antico Senato costruito in parte all’aperto e ad emiciclo è immerso nel silenzio assoluto, siamo nel 157 a.C., ed a parlare è un solo senatore “Marco Porcio Catone detto Catone il Censore” notissimo per il suo odio viscerale contro il potere di Cartagine che lancia il grido di allarme «Ceterum censeo Carthaginem esse delendam» (Penso comunque che Cartagine deve essere distrutta). Un allarme, come una sorta di fissa, che Catone lanciava alla fine di ogni suo discorso, anche se aveva relazionato sul mancato raccolto di grano nelle Puglie. Vale a dire che già nel 157 a.C. per risolvere gli scontri di potere si era costretti a ricorrere all’annientamento dell’avversario.

Sempre a cavallo della mia immaginazione faccio un salto di oltre mille anni e vedo nell’emiciclo purpureo dell’aula di udienza a sezioni unite della Cassazione un personaggio con addosso l’ermellino che prendendo a prestito la storica frase di Catone grida alla Corte: “Ceterum censeo Patrocinium esse delendam”, vale a dire più o meno che necessita sconfiggere (non voglio dire distruggere) l’ordine costituito dell’Avvocatura che si contrappone all’unico potere reale che è quello della Magistratura. Ovviamente ogni riferimento all’alto magistrato consigliere Franco De Stefano (di chiare origini campane, se non proprio salernitane), relatore nella pubblica udienza del 4 dicembre 2018, è puramente casuale. Il riferimento non tiene, difatti De Stefano non è Catone e Catone non è De Stefano; qui è in ballo il potere di immaginazione del giornalista che è chiamato (o almeno si spera) a fare il punto della situazione da un osservatorio che dovrebbe sempre essere autonomo e indipendente.

Del resto il consigliere di Cassazione Franco De Stefano con  la sua requisitoria contro il parere del Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Avvocati non si è inventato niente, prima di lui (appena qualche anno fa) un altro alto magistrato che rivestiva il ruolo di presidente del collegio giudicante -sempre a sezioni unite-, Antonio Esposito, lesse il 1° agosto 2013 la sentenza di conferma di una precedente condanna che praticamente rese applicabile retroattivamente la “legge Severino” sulla decadenza dalla carica di senatore di Silvio Berlusconi. Nessuno, o pochissimi, in quella occasione gridò allo scandalo, ed ecco che oggi ci ritroviamo al cospetto di “cervellotiche interpretazioni” che hanno prodotto la sentenza  del 4 dicembre scorso.

Quasi inutile e superfluo meravigliarsi e protestare contro la sentenza n. 32781/18 anche se la stessa “stupisce” per cervelloticità dei ragionamenti interpretativi (tutti filosofici senza alcun fondamento giuridico) ed anche delle gravi e gratuite affermazioni contro gli avvocati che assicurano, secondo la Carta Costituzionale, l’inviolabile diritto di difesa e rappresentano l’altra faccia del pianeta giustizia; insomma una sorta di pudore e di antipudore in un gioco senza esclusione di colpi per l’affermazione del proprio potere.

Gli avvocati, oggi, si ribellano e lo fanno a giusta ragione; ma viene da chiedersi dove erano quando, tra risatine ed ammiccamenti vari, fu spazzato via dal Parlamento l’ex presidente del consiglio che probabilmente meritava di essere spazzato via per altri problemi e non certamente perché alcuni magistrati avevano ritenuto di applicare gli effetti della Legge Severino con effetti retroattivi. E soprattutto dove erano fin da quando la parità tra accusa e difesa non è stata mai garantita lasciando tutto, o quasi, nelle mani e nelle menti dei magistrati che di volta in volta si esibiscono in stravaganti, cervellotiche, contraddittorie interpretazioni della norma, ma sempre vincenti anche contro la logica e corretta applicazione della legge.

Il problema è sempre quello che già nel 157 a.C. poneva Catone il Censore con la sua fissa contro Cartagine: l’altro potere va sempre e comunque abbattuto.

E questo modo di fare, negli ultimi decenni, sta prendendo sempre più piede in una società che non riesce a dirimere da se le possibili e normali controversie che esistono tra soggetti privati, pubblici e ordinamentali. Tutti ricorrono al giudice, tutto viene rimesso nelle mani del giudice, anche la politica si è praticamente consegnata al giudice che ha accresciuto il suo già smisurato potere fino a renderlo planetario ed intoccabile. E ora, è di questi giorni che anche le leggi promulgate dal Parlamento finiscono direttamente nelle mani del giudice dopo essere state calpestate da chi le dovrebbe rispettare ed applicare; siamo messi davvero male.

Ho letto attentamente la “riflessione” dell’avvocato penalista Cecchino Cacciatore (sempre attento alle questioni di carattere generale, l’unico che toglie tempo prezioso al suo lavoro per cercare di tamponare le carenze dei tantissimi suoi colleghi che fanno finta di niente) pubblicata su Il Mattino del 2 gennaio 2019; una riflessione che condivido in pieno e che necessitava, comunque, da parte di un giornale prestigioso come Il Mattino almeno di qualche tentativo di approfondimento; macchè, ormai questo giornalismo appartiene ad un lontano passato.

Ma c’è anche il fragoroso silenzio dell’Ordine degli Avvocati di Salerno che nella sua stragrande maggioranza sembra quasi come assentarsi da una problematica che non è soltanto un accadimento casuale ma uno scontro durissimo tra poteri che può incidere sullo stesso futuro della buona giustizia. Eppure il presidente Montera dovrebbe essere direttamente interessato in quanto si è ricandidato alla presidenza per le immkinenti prossime elezioni.

E’ c’è, infine, il grave problema della non applicazione delle leggi (il caso sindaci contro il ministro dell’interno per il decreto sicurezza fa scuola o no ?) che rischia di scaraventare, con la complicità di tutti “politici, giudici, istituzioni, avvocati, amministratori” in un baratro senza fine che dovrebbe preoccupare tutti.

Di queste cose cercherò di fare un’analisi serena e indipendente, anche se con i tantissimi limiti che discendono dal fatto di non essere un giurista ma con la forza della logica, nei prossimi giorni.

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