Bianchini Felice junior
(corrispondente e notista politico)
ROMA – Sono piene le bocche di sogno europeo: i grandi italiani europeisti si sono svegliati, dopo che l’esistenza dell’UE poteva tranquillamente essere messa in dubbio, visto che era passata totalmente in secondo piano nel dibattito a tutti i livelli, dal bar, alla televisione. La campagna elettorale in Italia, infatti, si è svolta sentendo “Europa” poche volte: il Pd si dilettava ad elencare tutte le cose fatte e quanto fossero stati bravi; Centro-Destra e M5S, al contrario, erano concentrati a dire quanti danni avessero fatto i precedenti governi e quanto loro avrebbero fatto meglio. Tutti annunciavano che avrebbero vinto le elezioni, ottenendo il famoso 40%. Nessuno parlava d’Europa – giustamente diremo: erano le politiche italiane, dopotutto, perché mai si sarebbe dovuto parlare d’Europa?
Alla fine non ha vinto nessuno: basta dire che ha vinto il CDX, e basta dire che hanno vinto i 5stelle, poiché nessuno aveva ed ha i numeri per governare da solo – e non basta comprare qualche parlamentare in un secondo momento per poter dire di aver vinto, sia chiaro a chi ancora ragiona in questi termini. Ma in fin dei conti, la “non vittoria” ce la si aspettava, vista la legge elettorale.
Dopo una lunga attesa, ci siamo ritrovati con il governo gialloverde, inaspettato, considerato un mostro fatto di forze incompatibili. In realtà, stropicciando bene gli occhi, ci si accorge di come sia, al di là dei gusti e dei colori politici, una perfetta reazione a ciò che il paese ha subito, negli ultimi sette anni in particolare. Basta tornare al 2011, quando venne votata la fiducia al governo Monti: fuori dal Parlamento c’era Grillo con i suoi sostenitori, ormai all’entrata; dentro, staccata dalla finta maggioranza di unità nazionale, c’era invece la Lega, non ancora guidata da Salvini, ma che già iniziava ad aggiungere alla lista nera, anche al di sopra di Roma, Bruxelles.
Forse, anche se il tema Europa era quasi assente in campagna elettorale, era sottinteso fosse il più importante. Le elezioni di Marzo, del resto, non erano il bottino più prezioso, ma solo il primo passo verso un cambiamento. Parlare ora di retromarcia e fallimento è comprensibile, ma bisogna rendere noto quale sia l’obiettivo messo a fuoco, alla luce del quale si decreta il fallimento; esso infatti è possibile solo rispetto a un traguardo che non viene conseguito, e il traguardo del cambiamento era già palese non fosse conseguibile autonomamente a livello nazionale, vista e considerata la nostra appartenenza all’Eurozona, la conseguente impossibilità di uscirne indenni per via dell’accumulo di problemi strutturali e delle conseguenze di una simile scelta, e vista e considerata la trattativa – che già si sapeva sarebbe dovuta avvenire – con la Commissione europea. Si può affermare che al governo fossero convinti si potesse ottenere di più, e non si direbbe probabilmente il falso. Ma da osservatori onesti intellettualmente, non si poteva e non si può non dire che era quasi impossibile che i nostri governanti avessero la minima possibilità di poter imporre la loro linea ai commissari, per ragioni più politiche che tecniche – altra considerazione che presuppone l’onestà intellettuale.
A questo giocano non giocano solo i nostri al governo, ma anche i signori di Bruxelles che stanno dall’altro lato, inevitabilmente. Dire il contrario significa non aver capito la sostanza del confronto in atto – che ribadiamo essere politica. In gioco c’è la visione in prospettiva del ruolo e dei compiti, a livello nazionale e internazionale, del continente europeo. Per adesso l’Europa è un gruppo di amici – amici si fa per dire -, raggruppati attorno a un tavolo, i quali hanno di fronte, al centro di esso, una enorme torta; questi, incapaci di spartirsela equamente, hanno deciso che la scelta migliore fosse il digiuno condiviso, convinti che questa finta soddisfazione dell’essere stati equi basti a saziare tutti. Nel mentre però, tra prediche e festeggiamenti, molti intorno soffrono, aspettando di mangiare. E nella distrazione generale, sia alcuni tra quelli al tavolo, sia alcuni intorno, sghignazzando, si riempiono la pancia.
In questa immagine l’Italia è stata uno dei seduti, quantomeno su uno sgabello, che ha arraffato in silenzio qualche briciola caduta dal vorace pasto degli altri, nella convinzione di non poter essere rei cibandosi di rimasugli – che in fondo non piacciono a nessuno -, pur di mantenere la coscienza in ordine.
Affermare la legittimità del potere costituito europeo, senza guardare i numeri che stanno alle sue spalle, può far incappare in gravi errori di valutazione. Va innanzitutto ricordato che il presidente della commissione, che è la prima carica a livello istituzionale europeo, viene proposto dal Consiglio e dev’essere approvato dal Parlamento. Detto questo, vanno fatte alcune considerazioni riguardo il Consiglio (Consiglio europeo e non consiglio dei ministri europeo, quindi parliamo dell’organo che si occupa dell’indirizzo politico dell’unione, privo di potere legislativo), riguardo il Parlamento e riguardo le istituzioni europee in generale e da chi e cosa dipende la loro attuale e futura composizione.
Il primo, che è composto dalle massime cariche degli stati membri – per dirla in modo semplice, è l’insieme dei “presidenti del consiglio” dei vari stati dell’UE -, propone al Parlamento, il quale è l’unico organo che è legato alle urne direttamente, espressione del voto delle europee, un nome come candidato presidente della commissione, il quale è incaricato di stabilire i “portafogli” dei commissari e rappresenta la linea direttiva della Commissione; dopo la proposta, se il candidato riceve il voto a maggioranza del Parlamento, assume la carica. La Commissione, il Consiglio e il Parlamento di cui parliamo oggi, dunque, sono frutto delle elezioni europee 2014 e delle politiche negli stati nazionali che si sono tenute prima di quelle, aggiungendo, quindi, che essi sono espressione di una linea politica elettorale che in vari paesi adesso è in minoranza; non solo: le europee 2014 hanno segnato la stagnazione dell’affluenza alle urne, registrata ad uno scarso 43%, le quali quindi hanno costituito un parlamento che è come se rappresentasse meno della metà della popolazione, il quale ha poi eletto un presidente della commissione che inevitabilmente, al di là dell’identikit, si è ritrovato in partenza con una macchia di illegittimità, ereditata dal 43% delle europee.
Ma il problema vero è che non parliamo di un caso isolato, bensì di un trend discendente consolidato, che parte dalle prime elezioni, avvenute nel ’79, quando ancora l’architettura dell’UE era a mala pena un progetto e la Germania era ancora divisa da un muro. In quella situazione votarono il 61% degli aventi diritto di voto degli allora 9 stati membri; da quel momento in poi, gli stati membri sono aumentati, mentre le urne europee sono andate svuotandosi, fino al 43% delle ultime, distribuito tra i 28 stati, che nel frattempo rischiano – oggi un po’ meno – di diventare 27. Questi numeri aumentano la rilevanza del voto di Maggio, che potrebbe essere una svolta e rimettere sul piatto i Trattati, gettando la prima pietra della ristrutturazione del soggetto europeo. Ciò è possibile anche per via del terremoto politico che sta avvenendo nei vari stati, che produce instabilità anche riguardo la composizione del Consiglio, e quindi dell’organo al quale i Trattati attribuiscono la gestione dell’indirizzo politico.
E in fin dei conti è lì che si giudicherà il nostro governo, visto e considerato che se riuscissero ad ottenere una buona fetta del Parlamento, con i rispettivi gruppi, otterrebbero la possibilità di rimuovere le incrostazioni della vecchia classe politica che sembra non riscuotere più consenso tra le fila elettorali più bisognose, e quelle disilluse, sia a livello nazionale che internazionale. Chi viene tacciato di essere conservatore pare essere, agli occhi del pubblico, più progressista di chi progressista invece sente di essere.
Spesso si rammenta che la realtà, arrivati a un certo punto, presenti il conto: pare l’abbia presentato a chi riteneva semplice mettere insieme 28 stati, con differenti culture, lingue e tradizioni. Forse il mezzo non è e non sarà quello adottato negli ultimi 20 anni, ed è per questo che sembra che l’elettorato abbia, per ora, sospeso il giudizio, poiché attende di vederne attuato un altro diverso e più proficuo. E questa sospensione vale anche per l’attuale opposizione, la quale però arranca e sembra essere ancora indietro e disunita in vista della campagna europea.
Dire, in questo senso, che si vogliono gli Stati Uniti d’Europa è generico, e può essere fuorviante, perché può far pensare a un tentativo di copiare l’occidentalismo americano – e non è parlare di europeismo che consente di ottenere indipendenza da quel modello. Essere Europa vuol dire ambire a qualcosa di più, qualcosa necessariamente di diverso, pena l’essere fragili, incapaci di avere una base che si riconosca nell’istituzione. Se poi, nel nome della libertà individuale, dell’autodeterminazione, si getta questa base in una competizione incessante e sleale, deregolamentata, incontrollata, si finisce col generare rancore, come è avvenuto.
Se si vuole la moneta unica, bisogna costruire innanzitutto una seria rete di sicurezza sociale europea, ad esempio con un reddito minimo garantito; occorre che l’intero sistema non si dedichi più solo ed esclusivamente alla competitività e all’equilibrio finanziario, e che non si comporti solo da controllore-spettatore, ma che si impegni attivamente nella gestione dei progetti innovatori e dei piani di investimento, ruolo che può essere anche delegato a politiche economiche nazionali, volte alla tutela della produzione e della domanda interna, nonché all’innalzamento e al mantenimento di più alti livelli di occupazione. Per il consolidamento dell’interscambio culturale si potrebbe iniziare a costruire un più concreto modello di scuola e più in generale di indirizzo e formazione dell’individuo europea, che riesca a formare ed occupare i cittadini, creando un ponte tra la scuola, l’università e il mercato del lavoro, e non relegando ognuno nel suo mondo. Si può e si deve ambire poi a una difesa corale, se proprio non si vuole dire comune, dei confini, senza la quale non si può pensare che Schengen continui a sopravvivere, sempre che sia ancora effettivamente del tutto in piedi.
E infine c’è bisogno di ristabilire in che modo si definisce la linea politica dell’Unione, senza che la politica interna europea diventi parte di faccende di politica estera per uno stato membro; riuscendo invece a mettere ordine all’interno, per poter essere più efficaci e rilevanti verso l’esterno, a partire dalla sfida del terzo mondo lanciata ormai da decenni e mai concretamente affrontata.
L’attuale modo di concepire il ruolo dell’Europa, al di là delle difficoltà di lingua, è frutto di una crisi della politica che ha tartassato i sogni e le speranze dei 500 milioni di europei che potrebbero ambire a stare tutti, sia chi sta bene, sia chi sta peggio, molto meglio, nonché ambire ad avere un ruolo da protagonisti nei processi decisionali globali. Un’Europa forte fa bene sia agli europei che al mondo intero; ma un’Europa che rende fragili gli Stati membri, che si allontana dalla base, dagli europei, o che cerca di emulare gli USA, non ha un’aspettativa di vita lunga.
A breve inizierà ufficialmente (sappiamo essere già iniziata in maniera informale) la campagna elettorale. Per ora nessuno ha fallito: il vero vincitore sarà decretato dalle elezioni di Maggio e dal percorso che, a seconda del risultato, si intraprenderà da lì in poi. Il primo passo deve essere portare quel 43% oltre il massimo storico del 61%, per poter dire che gli europei si sono espressi, per poter dimostrare che un popolo europeo esiste.
La certezza è che indietro non si torna.