Aldo Bianchini
VALLO di DIANO – E’ sempre triste, molto triste quando finisce una storia, un progetto, una sollecitazione sociale oppure un’inchiesta giornalistica. E’ triste perché può anche significare una resa incondizionata allo stato di cose che governa un territorio, una provincia, una regione o l’intera nazione. Non posso ancora crederci, ma sembra proprio che Eppe si stia arrendendo (uso il condizionale) alle prime difficoltà ed alle prime e poche aperte contestazioni, senza tener conto delle numerosissime incitazioni ad andare avanti ed a far meglio. Finanche un suo iniziale detrattore ha postato sotto uno degli ultimi approfondimenti di Eppe un commento molto positivo.
Ma Eppe, probabilmente, è fatto così, prendere o lasciare; la sua esplosiva libertà non ammette e non accetta condizioni o condizionamenti, il suo spirito libero reagisce fortemente e lo induce a richiudersi in se stesso o dietro se stesso. Un vero peccato la sua resa annunciata.
L’avevo conosciuto, come lui stesso dice nella lettera aperta, nel mese di settembre ad un convegno sulla transumanza dei giovani dal Vallo di Diano verso approdi più sicuri e più promettenti; era intervenuto da par suo nella discussione e, quella sera, aveva messo tutti a tacere dall’alto del suo profilo culturale e professionale. Poi incominciò ad inviare a questo giornale i suoi preziosi contributi, non poteva però pretendere che alla sua prima e forte (per certi versi anche brutale !!) considerazione sul Vallo e sulle sue genti tutti lo applaudissero; si è spaventato al primo insorgere delle contestazioni e il suo veemente ardore non gli ha consentito di ragionare e di rimanere sul campo a combattere tutte quelle cose che ha denunciato e che io personalmente in gran parte condivido.
Sembra, rimarco sembra, si sia arreso inviando un’altra sua appassionata lettera aperta ai sindaci con la speranza che qualcosa si muova; Eppe non voglio deluderti ma qui non si muove niente, e non solo nel Vallo di Diano ma in tutta la Provincia, nella Regione e nel Paese.
Ma non per questo bisogna demordere e deflettere dai propri principi, dalla propria libertà di pensiero, dalla possibilità di poter dare un contributo fattivo al miglioramento dello stato dell’arte che, ripeto, versa in condizioni davvero disastrose. Il potere, insidioso e viscido, vuole proprio questo.
Con la speranza che Eppe raccolga il mio appello vi lascio alla lettura della sua lettera aperta.
VALLO di DIANO ADDIO – di Eppe Argentino Mileto
Egregio Direttore, le avevo promesso un pezzo. Eccolo. Ma è l’ultimo. Sto scrivendo un libro che mi lascia senza fiato. Scrivere è un parto. E prima del parto c’è la gestazione. Sono alle prese con post-it su cui annoto tutto, fermo date, incontri, luoghi. Con la dovizia e la pazienza di un amanuense. Riordino tutto in un’agenda. Poi straccio tutto e ricomincio da capo. A volte impiego mesi per trovare un parola. Altre devo rinunciare a me stesso perché la scrittura sia libera. Devo liberare le pagine dall’appartenenza. Devo spogliarle. Ma soprattutto scrivere questo libro comporta uno sforzo ancora maggiore, che non è solo l’organizzazione dei pensieri. Ma molto di più: è scrivere la verità. Ma è vero ciò che avrò scritto? O sono un cumulo di aspettative, sogni, rappresentazioni alternate alle paure? O alla paura. Perché fa paura scrivere un libro, sa? Non è un’avventura che consumi una sera. Al massimo una notte. No, un libro è un dialogo, un atto di amore, un progetto per la vita. Che ti auguri duri per la vita. Per la tua fottutissima vita, comunque vada. E che hai voluto. Che hai concepito. E che ti prepari a sputare dall’utero di un limbo eterno nell’attesa di udirlo piangere perché lo hai restituito alla vita. Poi scegli il nome. Ti chiedi che nome dargli. Che nome avrà, il libro. Perché è con quel nome che andrà in giro per il mondo. Gli stai dando un’identità. E lo immagini, mentre si nutre di te. Lo porti dentro di te. Aspetti che si formino le manine, gli occhietti, la testa, l’intelligenza. Attendi che respiri. Gli regali le qualità che senti di possedere. E quelle dell’uomo col quale lo hai concepito. Spero che il mio libro non sia di questa terra. Perché a me, di questa terra, di questo mondo, non mi è mai importato un granché. Perché non ne faccio parte. Quindi, caro Direttore Bianchini, la ringrazio per avermi ospitato sul suo giornale. Ma tolgo il disturbo. E vado via. Devo riprendere il mio viaggio, che è la ricerca della verità. E non so neppure se esista, questa verità. Se sia sprofondata negli abissi di qualche oceano, se sia un Atlantide di miei pensieri, sogni, progetti. Ma devo andare. Vede, tutta la vita l’ho trascorsa a progettare. Compiendo un mare di errori. Che rifarei. Rifarei tutto. E a lei, riscriverei tutto quello che, da Settembre ad oggi, ho scritto. Era Settembre. Il mese in cui sono nato. Ci conoscemmo ad un convegno. Ricorda? Ho iniziato con una lettera aperta e ho concluso con una lettera aperta, la mia permanenza sul suo giornale. Entrambe le esperienze sono frutto di progetti. Sì, anche quegli articoli. Mi sto congedando, non soltanto da lei, ma da tutto il Vallo di Diano. Non penso ci sia posto per quelli come me. Per chi ha il coraggio di progettarla, la verità. Di inseguirla. Di urlarla con tutto il fiato che si ha in gola. È Natale. Quasi. La gente costruisce presepi, appende addobbi agli alberi di Natale, depone regali e panettoni. Io no. Trascorrerò in assoluta solitudine anche questo Natale. Come tutti gli altri della mia vita. Ero solo anche quando non lo ero. La solitudine è la miglior compagnia, sa? Per chi sa di non appartenere a questo mondo. Vuol sapere come vivo? Lavoro, leggo, studio, scrivo e viaggio. Viaggio moltissimo. Anche quando sono in uno stesso luogo, io viaggio. Mi perdo in mondi fantastici. Vedo cose che altri non vedono. Sento cose che altri non odono. Scendo sempre più in fondo, senza paura di trovarvi demoni o angeli, in fondo al pozzo di ciascuna anima. È come se avessi una percezione adulterata del mondo reale, che è il vostro. Mai il mio. Quelle lettere aperte mi hanno insegnato che la mia strada, in quel lembo di terra, è arrivata ad un bivio. E che devo compiere una scelta: servire il potere, servirmi del potere, scrivere peana e ditirambi, relegarmi al ruolo di aedo o rapsodo. Oppure andare via. Evidentemente, per quelli come me che non cedono alle sirene dell’ipocrisia, la strada da seguire è obbligata. Quindi vado via. Andrò via anche da Teggiano. Che mi avrà visto residente per un mese appena. Ma sono veloce. Anche in questo. Ho perso dappertutto. In fondo non ero venuto per aiutare la gente a trovare la propria strada. Ma la mia. Ho una vivace attività di pensiero. Qualità che spero trasmettere al mio libro. E spero che anche lui, come me, viaggi perdendosi altri mondi decisamente più affascinanti. Veloce come me. Sta crescendo bene, sa? Ne parlavo a cena con Alcmeone di Crotone. Ricercatore attento e spregiudicato. Pensi, fu il primo a comprendere che tutti gli organi di cui siamo dotati sono connessi al cervello. E al cervello tocca di elaborare, di organizzare e dotare di un profondo significato conoscitivo i dati sensoriali, le percezioni sensibili. In altri termini comprese che la conoscenza non si esaurisce mai nella ricezione percettiva della realtà esterna, ma richiede un ulteriore lavoro di costruzione mentale. No, non sono il cuore, il sangue (di cui ho scritto), le vene a svolgere un ruolo centrale in noi. Ma il cervello. Prima di Alcmeone cuore e sangue erano concepiti come la sede per eccellenza di tutti i processi vitali. Che vuol dire erano il luogo in cui la vita si incontrava con il cosmo. Anzi, la vita dell’uomo incontrava la vita del cosmo. Non è così. Prima di lui la conoscenza era passiva ricezione della realtà; le ideologie della conoscenza diventavano pura contemplazione, osservazione, speculazione, teoria. Lui comprese che occorreva distinguere fra sensazione e conoscenza, occorreva collocare la conoscenza nel cervello, attribuire quindi un carattere attivo ai processi conoscitivi, concepirli come uno sforzo di appropriazione da parte dell’uomo. “Delle cose invisibili, delle cose mortali gli dèi hanno immediata certezza, ma agli uomini tocca procedere per indizi”. Ed è così che sto procedendo nella scrittura del mio libro. Per indizi. La lascio non senza una precisazione sul titolo che mi ha gentilmente dedicato, fortunatamente concluso con un punto di domanda. Io non giudico. Critico. Esattamente quello che intendeva Immanuel Kant. Ricorda? Per critica della ragion pura intendeva l’indagine rigorosa della “facoltà della ragione riguardo a tutte le conoscenze a cui può aspirare indipendentemente da ogni esperienza”. Sottoporre a giudizio la ragione umana è l’unica forma di giudizio che mi interessa. Questo è il mio progetto. Che metto nel mio libro. Sono queste le manine, gli occhietti, le gambine, i polmoni, l’intelligenza di cui è dotato. Oh sì, sarà forte, il mio libro. Ecco perché vivo da solo. Come può pensare che possa fermarmi in un luogo? Come può credere che vi sia posto per me nel Vallo di Diano? Lascio tutti e tutti i Sindaci, destinatari della mia seconda ed ultima lettera aperta, al loro posto, con le sagre, le recitine, le scuole, i bambinelli nel presepe, le festicciole, le polemicucce, i loro bar, i caffè, i parroci, le suorine, gli interessi degli abitanti che chiedono solo di non cambiare nulla, di non toccare nulla, perché il nuovo, il diverso spaventano. L’intelligenza fa paura. Non se ne era accorto, Direttore? Avrei avuto una vita molto più semplice e facile se fossi nato cretino. E se fossi nato stupido avrei ottenuto molto di più. E se poi anche disonesto, sarei una sorta di marajà. Ma l’intelligenza è un vizio. Che non voglio perdere. Il vostro Dio sia con voi. Il mio non c’è mai stato. Buon Natale.
A prescindere dalla opportunità di questa “scesa in campo”, purtroppo di berlusconiana memoria pur se mutatis mutandis, dobbiamo prendere atto che questi sindaci dormienti non sono in letargo ma sono morti. Ahinoi!
E’ vero che Eppe Argentino Mileto ha creduto di essere il messia, che ha pensato di poter discutere con loro anche di logica trascendentale, di intelletto e di ragione (Aiuto! Aiuto!), ma nessuno di loro ha avuto il coraggio di rispondere apertamente alle sue “provocazioni”.
Voglio sperare che non l’abbiano fatto solo perché si siano ritenuti non all’altezza dell’interlocutore, altrimenti dovremmo constatare la loro imperturbabilità che indica disinteresse, apatia, mentre la gestione della cosa pubblica richiede azione e passione.
Forse è arrivato il momento che se ne stiano a casa.