Aldo Bianchini
SALERNO – La vicenda che mi accingo a raccontare è, di per se, complessa – intricata e intrigante non soltanto perché è una vicenda di buona e/o cattiva sanità pubblica, ma sostanzialmente perché è una vicenda di vita e di morte.
Attesa la difficoltà del racconto che potrebbe colpire singole e specifiche sensibilità ritengo giusto precisare che con questo racconto non mi prefiggo di andare all’affannosa ricerca delle eventuali responsabilità direttamente connesse ad un eclatante caso di malasanità, non tanto e soltanto perché non è compito di un giornalista, piuttosto perché l’individuazione delle responsabilità (eventuali o concrete che siano) è compito esclusivo degli organi giudiziari istituzionali.
Mi corre altresì l’obbligo di ribadire, se ce ne fosse ancora bisogno, che si vive e si muore a tutte le latitudini, che si vive e si muore in qualsiasi ospedale del mondo dall’avamposto sanitario nella sperduta Africa nera al mitico ospedale di Boston accreditato come tra i migliori del mondo.
Per far capire che nel mio difficile racconto non c’è alcuna animosità verso persone, strutture e cose, mi preme raccontare cosa accaduta, appena qualche anno fa, alla moglie di un mio nipote presso l’ospedale di Boston. Mentre era in corso un delicato intervento chirurgico, per la rimozione di una massa tumorale al cervello, salta improvvisamente il funzionamento di tutti i macchinari della sala operatoria; non solo salta anche l’intero impianto elettrico ed elettronico (anche nei sistemi di emergenza). Panico in tutto l’ospedale, ripeto tra i migliori del mondo, mentre incomincia a passare il tempo. La paziente assistita, sedata e sorvegliata con luci manuali di emergenza e passano ben “sette ore” prima che, dopo gli opportuni controlli e verifiche, possa riprendere l’intervento operatorio. Molto più lungo del previsto il risveglio e la successiva degenza; fortunatamente la giovane donna, cittadina americana, ore sta bene e sembra tutto superato. Però lo spavento e la disperazione di tutti i suoi familiari fu enorme ed a tratti incontrollabile; tutti si chiedevano come fosse possibile, nel Paese più avanzato del mondo in campo tecnologico, un episodio così grave. In quella occasione, comunque, un nugolo di sanitari e paramedici (rafforzati anche nel numero mano a mano che passava il tempo) seppe tenere in mano la situazione, dal controllo della stabilizzazione della paziente alla cura psicologica del marito, dei figli e dei genitori. Un esempio altissimo di come dovrebbe essere esercitato, in ogni momento, il moderno giuramento di Ippocrate che, vista l’importanza della storia, è giusto riportare integralmente qui di seguito:
«Consapevole dell’importanza e della solennità dell’atto che compio e dell’impegno che assumo, giuro:
- di esercitare la medicina in libertà e indipendenza di giudizio e di comportamento rifuggendo da ogni indebito condizionamento;
- di perseguire la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell’uomo e il sollievo della sofferenza, cui ispirerò con responsabilità e costante impegno scientifico, culturale e sociale, ogni mio atto professionale;
- di curare ogni paziente con eguale scrupolo e impegno, prescindendo da etnia, religione, nazionalità, condizione sociale e ideologia politica e promuovendo l’eliminazione di ogni forma di discriminazione in campo sanitario;
- di non compiere mai atti idonei a provocare deliberatamente la morte di una persona;
- di astenermi da ogni accanimento diagnostico e terapeutico;
- di promuovere l’alleanza terapeutica con il paziente fondata sulla fiducia e sulla reciproca informazione, nel rispetto e condivisione dei principi a cui si ispira l’arte medica;
- di attenermi nella mia attività ai principi etici della solidarietà umana contro i quali, nel rispetto della vita e della persona, non utilizzerò mai le mie conoscenze;
- di mettere le mie conoscenze a disposizione del progresso della medicina;
- di affidare la mia reputazione professionale esclusivamente alla mia competenza e alle mie doti morali;
- di evitare, anche al di fuori dell’esercizio professionale, ogni atto e comportamento che possano ledere il decoro e la dignità della professione;
- di rispettare i colleghi anche in caso di contrasto di opinioni;
- di rispettare e facilitare il diritto alla libera scelta del medico;
- di prestare assistenza d’urgenza a chi ne abbisogni e di mettermi, in caso di pubblica calamità, a disposizione dell’autorità competente;
- di osservare il segreto professionale e di tutelare la riservatezza su tutto ciò che mi è confidato, che vedo o che ho veduto, inteso o intuito nell’esercizio della mia professione o in ragione del mio stato;
- di prestare, in scienza e coscienza, la mia opera, con diligenza, perizia e prudenza e secondo equità, osservando le norme deontologiche che regolano l’esercizio della medicina e quelle giuridiche che non risultino in contrasto con gli scopi della mia professione.»
Ho posto come titolo di questa vicenda “storia di vita e di morte” perché, ovviamente, come per nascere così per morire deve accadere un qualcosa di imponderabile che sfugge al controllo umano di qualsiasi operatore divenendo un momento immodificabile. Nella stragrande maggioranza dei casi di morte ci troviamo sempre di fronte ad un qualcosa di imponderabile e ad un momento immodificabile; complice in questo anche l’età, le precedenti patologie e lo stato generale del fisico nel momento cruciale; insomma cause e concause determinanti e fatali.
L’obbligo che, a prescindere da ogni altra circostanza, deve sempre essere vivo nell’animo di tutti gli operatori sanitari è “l’uomo”; viviamo nel tempo in cui si parla molto, si dice poco e si realizza ancora meno, svuotando (forse inconsapevolmente) l’uomo di valori pregnanti che motivano comportamenti sani ed edificanti e ricchi di sostanza (ho usato le parole scritte e consegnatemi dal marito – M.S.– della paziente deceduta). Tutti gli operatori sanitari che assolvono a questo compito può dormire il sonno dei giusti; poi può accadere che le cure e l’attenzione dedicate al paziente non vadano per il verso giusto, ma non si griderà mai allo scandalo ed alla malasanità.
Il grande tema di oggi è l’umanizzazione del personale sanitario nell’ottica di una completa umanità che deve essere rivolta a tutti gli esseri umani, anche a chi viene lasciata sola e abbandonata in un letto d’ospedale in preda a centinaia di formiche o a chi viene visitato nottetempo dai topi (tutti episodi comunque ancora da accertare giudiziariamente nella loro veridicità). L’uomo è l’animale della terra più indifeso, per questo ha assoluta necessità di essere trattato da essere umano anche con un semplice sguardo per non fargli passare il messaggio di essere soltanto un numero in un mare dilagante di disumanità.
La vicenda che mi accingo a raccontare (questa è la prima puntata) incomincia in una splendida giornata di sole quando nasce in un paesino sui Monti Alburni, finisce alle ore 2.45 di una mattina dello scorso mese di agosto presso l’Ospedale San Giovanni di Dio e Ruggi d’Aragona, come sempre per arresto cardio-circolatorio dopo 13 giorni di ricovero; Maria, il suo nome immaginario.
Scrive il marito (docente, giornalista e scrittore), tra il dolore e la delusione, che:
- “conferenzieri, relatori, politici, giornalisti spendono milioni di parole per presentare come un “miracolo italiano” strutture, burocrazia, protocolli assistenziali, professionalità del nostro servizio sanitario. In verità abbiamo delle eccellenze, ma abbiamo purtroppo anche un alto tasso d’inquinamento delle stesse. Abbiamo troppe componenti che mirano eccessivamente a dare spazio alle apparenze anziché alla sostanza di tale alto ruolo sociale, complici non trascurabili le esigenze di bilanci. In tanti ospedali sembra ci sia carenza di personale e, in molti casi, quello che c’è non sempre è professionalmente preparato, umanizzato, aggiornato. Sembra che carenze strutturali, comportamentali professionali vengano schermate con l’assegnazione di titoli ed incarichi apparentemente (od impropriamente) infarciti di autorità che, appunto, fanno sentire “domineddio in terra” anche chi non è in grado di svolgere le mansioni di sagrestano. C’è un detto che recita: in mancanza di preti, celebrano i seminaristi. E sono sempre queste errate o interessate investiture ad autorizzare i prescelti a sentirsi cosparsi di autorità per “grazia divina”.
Lo sfogo di un uomo, ferito e forse umiliato; uno sfogo che va, comunque, doverosamente analizzati in ogni suo aspetto.
Alla prossima puntata di questa complessa e complicata vicenda che ho deciso di raccontare perché Maria lo merita sotto il profilo morale e del ricordo, e perché quanto a lei accaduto non accada mai più.
Articolo altamente apprezzabile sia nella forma che nella sostanza. Pacato, equilibrato, illuminato. Si percepisce una punta di amarezza ma anche di speranza, relativamente ai tempi che viviamo e, specificatamente, alla realtà del settore sanitario. E’ saggezza che vuole scuotere dal torpore…