Di Angelo Giubileo
Oggigiorno, molti fisici hanno preso a dire e scrivere che la matematica sia stata ed è, così come sarebbe in effetti, “il linguaggio degli dei”. Questa proposizione normalmente oltrepassa e contrasta il comune buon senso, ma ha un’assoluta valenza di significato. In generale, la matematica è disciplina che comprende l’aritmetica, la geometria e l’algebra. La storia della matematica è progredita sin dall’inizio, e tuttora, ampliando con il metodo di ragionamento logico-deduttivo il campo delle applicazioni pratiche, e dunque in stretto legame con la fisica.
All’inizio, più propriamente, sembra sia stata l’aritmetica – che ha a che fare essenzialmente con i numeri – a fornire risposte di carattere pratico, e quindi l’algebra e la geometria; ma, non è affatto escluso che un ragionamento algebrico o geometrico abbia preceduto la dimostrazione di un ragionamento più semplice e immediato di tipo aritmetico. Di guisa che numerose sono le testimonianze raccolte che concernono parte dell’attività già esercitate in Egitto, Mesopotamia e Grecia arcaica anche risalenti a oltre il 3.500 e.a.
Scrive Dantzig: Quella che noi oggi chiamiamo aritmetica era per i Greci la logistica e nel medioevo fu detta algoritmo. Nel 1931, parzialmente coevo di Dantzig, un ben più noto matematico austriaco, dal nome di Kurt Godel (1906-1978), ha dimostrato ciò che indichiamo come Teoremi di incompletezza, che da lui presero il nome, in base ai quali ogni sistema assiomatico consistente in grado di descrivere l’aritmetica dei numeri interi è dotato di proposizioni che non possono essere dimostrate né confutate sulla base degli assiomi di partenza. E cioè: il sistema logico-deduttivo dei numeri interi non soddisfa l’interrogativo che attiene alla veridicità delle proposizioni, ovvero i numeri medesimi, che necessariamente servono a implementarlo o, in un linguaggio che attiene più alla fisica, costruirlo. Da cui anche la tesi di ogni Costruzionismo.
Dunque l’aritmetica, questo linguaggio degli deidi cui diciamo, oggi non si dimostra capace di sciogliere il nodo gordiano del più potente eroe della classicità, che è stato l’Alessandro Magno; il nodo del vero, della realtà che ci circonda, o altrimenti, avrebbe detto Parmenide, di ciò che, essenzialmente e senza poter aggiungere altro: è. E infatti, Parmenide sapeva bene tutto questo. Così come sembrerebbe, perfino a detta di Aristotele, che lo professassero tutti i filosofi dell’antichità classica almeno quelli precedenti all’epoca del Socrate di Platone. Sì che, in sintesi, scrive Plutarco: Parmenide non ha eliminato completamente tutte le cose, nella misura in cui ha supposto che l’essere sia uno. Parmenide non abolisce nessuna delle due nature, bensì, attribuendo ad ognuna ciò che le è proprio, ha posto l’intellegibile nella forma dell’uno e di ciò che è e lo ha chiamato “ciò che è”, perché eterno e immobile, e “uno”, perché identico a se stesso e non ammette differenza; mentre ha posto il sensibile nella forma del disordinato e del mutevole.
E però, ritornando a Godel, Ernest Nagel e James R. Newmann commentano che i due Teoremi non escludono altresì la possibilità di una dimostrazione finitistica assoluta di coerenza per l’aritmetica. E cioè che, sia pure in un campo o ambito che non sia l’aritmetica, sia possibile “costruire” una prova della presunta e assoluta coerenza del ragionamento logico-deduttivo, che è proprio dell’aritmetica, ma non solo. E tuttavia, gli stessi due autori affermano anche che nessuno ha un’idea chiara del probabile aspetto di una (siffatta) prova finitistica.
Al punto che, da filosofo, azzardo anch’io una breve considerazione: una prova finitistica sarebbe piuttosto qualcosa che attenga all’universo finito che occorre descrivere e prima di ogni altra cosa o pensiero sperimentare, dato che dovrebbe risultare incontestabile che tutto origini, viceversa induttivamente, dall’osservazione di ciò che è. E quindi: il ragionamento logico-deduttivo dell’aritmetica, così come oggi della matematica e del modo di fare filosofia ancora piuttosto comune, dovrebbe tutt’al più seguire; e non, invece, viceversa precedere. Così come, per errore, da circa 2.500 anni a oggi, comunemente accade.
Ma, ancora: ammesso che si possa sperimentare o perfino dedurre completamente ciò che è, non è tuttavia dato all’essere-uomo, in quanto tale, acquisire la certezza che quanto sperimentato o dedotto sia realmente. Per inciso, nel linguaggio più antico del sanscrito, il termine rta sta per “ciò che è giusto” o “verità” e deriva dalla radice r che indica “il moto verso una meta” e quindi “una distanza compresa tra due punti” (t); in senso ampio, la realtà intesa nel significato più remoto di possesso (ra). E quindi, in definitiva, resterebbe pur sempre aperta la possibilità che ciò che è sia o non sia. Ed è questo il significato più profondo della teoria dei classici dell’antichità, meglio nota come dottrina dell’epochè o della sospensione del giudizio, e per ogni effetto il limite fissato per l’uomo a ciò che: è (in effetti) praticabile.
Al termine della disamina, contenuta in La prova di Godel (1992), Nagel e Newmann concludono: E’ lecito pensare che la logica sia stata concepita, sin dall’inizio, in una relazione troppo esclusiva con la matematica, e che si sia così privata di una relazione altrettanto fruttuosa con il mondo fisico. In un mondo causale, i principi logici non concernono più la verità, ma l’azione: con 3000 lire compro un pacchetto di Camels, con 3000 lire compro anche un pacchetto di Marlboro, ma non tutti e due. In altre parole, il principio A equivale a A & A della logica classica è dinamicamente falso (fare A non è la stessa cosa che fare A e fare A). E aggiungo di proposito: tale è il tempo presente in cui possiedo ancora le 3000 lire, altrettanto tale è il tempo presente in cui decidere se impiegarle per l’acquisto di un pacchetto di Camels o Marlboro, sempre tale è infine il tempo presente in cui scambio le 3000 lire per l’acquisto di uno dei due pacchetti.
Ma, c’è dell’altro: il sicuro ammonimento dei due autori andrebbe rivolto ai logici classici che prestano fede senz’altro al ragionamento di Aristotele, ma non a coloro che viceversa si rivolgono alla logica dei progenitori delle più remote età – così come li definisce lo stesso Aristotele nei libri della Fisica e della Metafisica -, e tra questi, in particolare, spicca Parmenide l’eleate.