di Angelo Giubileo (scrittore)
SALERNO – Quando ho letto, ieri sul Corriere della sera, la notizia che alcuni importanti esponenti del mondo cattolico avrebbero chiesto al Pontefice di “riabilitare” l’opera filosofica di Emanuele Severino, un lungo brivido ha percorso il mio intero corpo. Per due motivi. Il primo: perché, circa trent’anni fa, la lettura dei testi di Severino procurò in me il distacco dalla tradizione politico-religiosa dalla quale l’intera mia generazione di più che cinquantenni proviene. Il secondo: perché, circa dieci anni fa, dopo più che approfondito riesame, ho maturato il mio personale distacco dal pensiero di Severino, giudicandolo anch’esso di tipo “metafisico” e quindi ancora inscritto in una chiave interpretativa della realtà di tipo politico-religiosa. La notizia di oggi, mi conferma che in ciò avevo ragione. E che Severino avrebbe invece torto, in base a quanto rappresentato nel corso della sua intera opera, che prende le mosse dal saggio che, correttamente il giornale, definisce “il testo-impalcatura” del pensiero di Severino: la Struttura originaria.
Ciò che avverso, infatti, è proprio la considerazione di una qualsiasi “Struttura”, e in principio “originaria”, che possa definirsi certa, e quindi vera e immutabile, dalla quale derivino, secondo le categorie di genere e specie, le cose che egli chiama pertanto “eterni”. Banalmente, invece, dico piuttosto che di “certo” e “immodificabile” non c’è niente e che piuttosto, alla maniera dei più antichi pensatori greci, la natura incerta delle cose è quella degli “enti”, nel senso di cui a breve diremo.
In premessa, occorre però ribadire un altro concetto, che è relativo a ciò che Martin Heidegger ha chiamato il “pensiero iniziale”, ovvero il modo essenzialmente logico ma anche corretto, potremmo anche dire “coerente”, come meglio vedremo, di relazionarsi sin da principio all’oggetto, e quindi pensare in modo “iniziale”. A giudizio di Heidegger e di Plutarco, il primo pensatore iniziale sarebbe stato Parmenide. Ma questo significa soltanto che nel pensiero di Parmenide appaia per la prima volta (?!) all’opera, e quindi anche formalmente, una struttura iniziale o originaria di pensiero logico, che, come sappiamo, non è certa, né vera, né immodificabile.
Il mio attacco è basato su una relazione, che definirei piuttosto intima ma non può essere esaustiva, tra la scienza della matematica e quella della filosofia, profittando qui soprattutto della testimonianza, rispettivamente, di due autori quali il matematico austriaco Kurt Godel e il già citato Plutarco.
L’opera di Kurt Godel è nota in particolare per un suo famoso articolo del 1931 in merito alla formulazione di due teoremi dell’indecidibilità. “Con qualche semplificazione”, avverte wikipedia, il primo teorema di Godel afferma che: “In ogni formalizzazione coerente della matematica che sia sufficientemente potente da poter assiomatizzare la teoria elementare dei numeri naturali – vale a dire, sufficientemente potente da definire la struttura dei numeri naturali dotati delle operazioni di somma e prodotto – è possibile costruire una proposizione sintatticamente corretta che non può essere né dimostrata né confutata all’interno dello stesso sistema”. E, in merito al secondo teorema: “Nessun sistema, che sia abbastanza espressivo da contenere l’aritmetica e coerente, può essere utilizzato per dimostrare la sua stessa coerenza”.
Dunque, in base alla conformazione delineata, se il sistema di cui si discute è quello proprio dell’aritmetica, la struttura (o il pensiero logico) della scienza matematica può ritenersi equivalente alla struttura (o pensiero logico) della scienza filosofica, e quindi i principi godeliani del sistema per così dire estensibili e quindi applicabili anche all’interno del sistema della filosofia. Con qualche semplificazione.
Nel caso del primo teorema, se il sistema è supposto coerente, ogni proposizione al suo interno non è né dimostrabile né confutabile. L’aporia, ovvero l’impossibilità di risolvere il problema, implica, secondo la logica di tipo aristotelico, una contraddizione che, in tal caso, consiste nel fatto che ogni proposizione del sistema non è né dimostrabile né confutabile, e quindi potremmo dire: incerta (né vera nè falsa).
Nel caso del secondo teorema – precisando che entrambi indissolubilmente fondano il principio dell’indecidibilità -, se il sistema è supposto coerente, in alcun modo tale coerenza può essere dimostrata dall’interno del sistema medesimo. L’aporia, ovvero il problema irrisolvibile consiste stavolta nella dimostrazione di coerenza dell’intero sistema (vero o falso, in base ai principi della logica aristotelica di identità, non contraddizione e terzo escluso). E’ pertanto evidente che il ragionamento logico di tipo formale, sia esso matematico che filosofico, determina comunque l’insorgenza di aporie ovvero, in modo corretto, l’impossibilità di risolvere determinati problemi o questioni.
Nell’ambito del discorso prettamente filosofico, è ben nota l’aporia rappresentata dal paradosso del mentitore, nella formulazione di Epimenide, il cretese, il quale asserisce che tutti i cretesi sono bugiardi. E quindi, ecco spiegata l’aporia: Epimenide dice il vero quando mente e mente quando dice il vero. In merito alla risoluzione del Paradosso, Paul Watzlawick ha annotato: “Tutti i numeri sono positivi, negativi o zero. Di conseguenza ogni numero che non sia positivo o zero è negativo e ogni numero che non sia negativo o zero deve essere positivo. E come la mettiamo allora con l’apparentemente innocua equazione x²+1=0? Se spostiamo l’1 dall’altro lato dell’equazione, otteniamo che x²=-1, e quindi che x=radice quadrata di -1. In un universo concettuale costruito in modo tale che ogni numero può essere solamente positivo, negativo o zero, tale risultato è però inimmaginabile, perché quale numero moltiplicato per se stesso (elevato al quadrato) può dare il risultato di -1? L’analogia di questa impasse con il dilemma paradossale precedentemente citato, che nasce in un mondo basato sul concetto di vero e falso e del terzo escluso, è ovvia. Tuttavia, per quanto immaginabile o inimmaginabile essa sia, matematici, fisici e ingegneri hanno già accettato con equanimità la radice quadrata di -1, le hanno assegnato il simbolo i (che significa immaginario), l’hanno inclusa nei loro calcoli al pari delle altre tre (immaginabili) categorie numeriche (positivo, negativo e zero), e con essa hanno ottenuto risultati pratici, concreti e perfettamente immaginabili” (P. Watzlawick, La realtà inventata).
Non c’è dubbio quindi che ad alcuni problemi, per così dire, “pratici” sia stata trovata una soluzione, prescindendo dalla logica di coerenza di un sistema, così come strutturato, fino ad allora incapace di offrire alcuna (possibilità di) risoluzione al riguardo. In effetti, quindi, la risoluzione di alcuni casi pratici deriva essenzialmente dall’introduzione al sistema fino ad allora in uso di nuove “categorie” o “proposizioni”, prescindendo dal fatto che tali proposizioni non siano dimostrabili o confutabili all’interno del sistema in gestione, ma rivelandosi, viceversa in concreto, risolutive.
Circa due millenni fa, con le “categorie” e le “proposizioni” a sua disposizione, Plutarco difficilmente avrebbe potuto risolvere i casi pratici ai quali accenna Watzlawick; e, tuttavia, non gli mancava affatto il discernimento. In particolare, nell’adversus Colotem, egli afferma che “Aristotele sovvertì completamente le idee, a causa delle quali Platone è rimproverato (n.d.r.: non correttamente) anche da Colote, per quanto (n.d.r.: Aristotele) era determinato ad abbattere la filosofia di Platone (…) Platone invece riteneva che il non essere differiva mirabilmente dal non essere l’ente: con il primo infatti si aboliscono tutte le essenze, mentre con il secondo si mostra quell’alterità tra il partecipato e il partecipante, che i filosofi successivi posero unicamente sotto la differenza tra genere e specie e tra qualità comuni e qualità proprie, senza progredire ad un livello superiore ed inciampando, così, in aporie logiche più grandi”. Ammesso che: il sistema è soltanto supposto coerente e le proposizioni del sistema non sono né dimostrabili né confutabili; semplificando, direi che “più grandi” sono quelle aporie logiche di sistema, tra “essere” e “non essere”, rispetto alle aporie logiche delle proposizioni inerenti alla natura incerta, epoche, dell’ess-ente, e quindi di ogni “ente”.
Difatti, continua Plutarco: “Lo stesso è accaduto ai filosofi più recenti: essi hanno privato del nome di ente molte e importanti realtà, tra le quali il vuoto, il tempo, il luogo e tutto il genere dei significati nel quale risiede la verità intera: Essi infatti dicono che queste realtà non sono enti e pur tuttavia sono qualcosa, e continuano a utilizzarle nella vita e nel filosofeggiare come se esistessero e fossero reali (…) ‘Ma questa differenza di essenza si trova nei fatti; più saggio di Platone è dunque Epicuro, in quanto chiama enti tutte le cose allo stesso modo (…) Ma se Platone è massimamente in errore a tal riguardo, egli doveva presentare un rendiconto a coloro che in greco si esprimono con maggiore precisione e nei discorsi con maggiore purezza per aver creato scompiglio nelle parole, ma non per aver abolito la realtà o per averci portato via la causa del vivere (n.d.r.: akatalepsia), quando ha denominato le cose divenute cose divenute e non, come invece fanno costoro, cose che sono’”. E dunque, dice Plutarco, meglio sarebbe stato che Platone avesse chiamato le cose “in trasformazione” (secondo le leggi, opposte, del “discreto” e del “continuo”) cose, parimenti, “che sono” e non viceversa cose “divenute” o che vengono in essere e quindi nascono dal nulla e muoiono nel nulla e quindi ad esso fanno ritorno.
Ma, ancora: cosa intende Plutarco quando dice che la verità intera risiede in tutto il genere dei significati, se com’è evidente ogni proposizione è né dimostrabile né confutabile o, nel linguaggio plutarcheo, correttamente, soggetta a epoche; ovvero: sospensione del giudizio? E com’è possibile, rispondendo all’accusa di Colote, che la pratica di una siffatta teoria, ovvero della sospensione di ogni giudizio, non conduca all’akatalepsia, ovvero all’inattività?
A tale proposito, Plutarco dice che “neanche coloro che trattarono lungamente dell’epoche, scrissero trattati e discorsi per confutarla riuscirono poi a scuoterla”. E quindi, salva è la dottrina dell’epoche, così come il principio godeliano dell’indecidibilità, che, com’è evidente, non ha nulla a che fare con il concetto aristotelico di “verità”, comune a tutti i filosofi successivi a Parmenide (e, secondo Plutarco, ad eccezione del linguaggio, anche a Platone). Dato che, viceversa e correttamente, per “verità” non si faccia riferimento ad altro che non sia l’epoche.
Quanto invece all’accusa di inattività, che deriverebbe dalla pratica della sospensione del giudizio, Plutarco sottolinea: “Ma alla fine costoro la vietarono, adducendo dalla Stoa l’accusa secondo la quale essa avrebbe portato come la testa della Gorgona all’inattività. Nonostante essi la assalirono e la misero completamente sottosopra, l’impulso si rifiutava di diventare assenso e non ammetteva la sensazione come asse della bilancia, ma si manifestava di per se stesso come guida delle azioni, non avendo bisogno di nulla che fosse aggiunto dal di fuori”.
L’impulso (all’azione), così lo chiama Plutarco, non ha bisogno, anzi di più, si rifuta di diventare assenso, ma – dice sempre il medesimo – si manifesta di per se stesso come guida delle azioni, non avendo bisogno di altro che non sia l’impulso stesso. Dopo circa duemila anni, giunti quasi al termine del loro saggio di analisi e commento ai teoremi di Godel, dal titolo La prova di Godel, Ernest Nagel e James R. Newman scrivono: “E’ lecito pensare che la logica sia stata concepita, sin dall’inizio, in una relazione troppo esclusiva con la matematica, e che si sia così privata di una relazione altrettanto fruttuosa con il mondo fisico. In un mondo causale, i principi logici non concernono più la verità, ma l’azione: con 3000 lire compro un pacchetto di Camels, con 3000 lire compro anche un pacchetto di Marlboro, ma non tutti e due. In altre parole, il principio A implica che A & A della logica classica è dinamicamente falso (fare A non è la stessa cosa che fare A e fare A). E’ in corso (n.d.r.: edizione 1993) una rilettura radicale dei principi logici, in relazione al loro significato fisico. Sarebbe prematuro discutere del teorema di Godel in questo nuovo contesto, ma certi dibattiti fondamentali dovrebbero inevitabilmente riceverne un nuovo impulso”.
E, per finire con Plutarco (op. cit.): Non bisogna combattere neanche una sensazione – tutte infatti presuppongono un contatto con qualcosa come se dalla sorgente della mescolanza ciascuna prendesse ciò che (le) si addice e che (le) è proprio – né bisogna predicare qualcosa dell’intero, dato che si entra in contatto solo le parti; né bisogna ritenere che tutti subiscano le stesse affezioni, dato che certi ne hanno alcune e altri altre, a seconda delle diverse qualità e potenzialità dell’oggetto.
Dopo innumerevoli miei scritti, dedico quest’ultimo, per la prima volta A me stesso.