di Angelo Giubileo (scrittore)
Il Parmenide di Platone è ritenuto “il testo filosofico più complesso e indecifrabile del pensiero antico”[1]; ma, senz’altro, secondo il pensiero della tradizione occidentale e quindi nel giudizio non può essere ricompreso il pensiero della tradizione orientale, che, viceversa precede e, presumibilmente, lo indirizza e finisce quindi essa stessa per caratterizzarlo, mediante un processo “culturale” che potremmo definire di “eterno ritorno” tra passato, presente e anche futuro.
Il debito, ma anche la “colpa” della tradizione filosofica occidentale, può farsi risalire quanto meno all’atto del parricidio consumato ai danni del pensiero di Parmenide, così come anche riscontrato nei frammenti dell’opera dell’eleate. Il pensiero dello “straniero di Elea”, così appellato in prima istanza da Platone in altre sue opere, secondo la maggiore tradizione rappresenterebbe piuttosto un esercizio; e, invece, il pensiero del “venerando e terribile”, così appellato in seconda e ultima istanza da Platone nel Parmenide, risulta nell’opera medesima, ineguagliabile; rappresentando la sintesi di un “sapere” destinato a restare saldo e immutato nel tempo. Dunque, un sapere che in Occidente oltrepassa i “limiti” (anche, confini) di qualsiasi tradizione filosofica di pensiero, presupponendone tutti i “contenuti” (ousia) e le “forme” (qui, i termini greci di riferimento sono diversi: μορφή-morphé, forma sensibile, σχήμα-skhēma, modo in cui una cosa si presenta,e είδος-èidos, forma intelligibile); e trova pieno riscontro, anticipatorio, senz’altro nei Veda.
Una prima conclusione (I) del Parmenide è: “– Allora, se ci volessimo esprimere in forma condensata dicendo che se l’uno non è, niente è, ci esprimeremmo correttamente? – chiede Parmenide a Socrate, e questi risponde – Assolutamente sì”. Ma: cos’è questo “uno” che “è”?
Guido Calogero, il primo limitatamente alla mia esperienza di ricerca e di analisi, ha posto, quale problema assolutamente prioritario d’interpretazione del pensiero di Parmenide, la questione della disambiguazione del linguaggio (il dire o il detto) del verbo “essere” in greco; il cui termine per l’appunto, così come la stragrande maggioranza dei termini usati, può comunque assumere così come assume, mediante la semplice rappresentazione formale dell’espressione (in questo caso, il termine o la parola “è”), una molteplicità possibile di significati.
Che l’“uno” “è” non significa nel testo in esame che l’“uno” esista, quanto invece che l’“uno” rappresenta, mediante la sua propria forma di linguaggio che è rappresentazione, potremmo così dire: il già-dato, il “gettato” per i greci, la “cosa” indefinita e, in senso estensivo, il “caos” o lo “spazio-aperto” delle origini, il pensiero iniziale, di Heidegger, che deve essere correttamente pensato. Nulla a che vedere con il concetto di essere che indichi viceversa il predicato dell’esistenza. Nel testo, non si discute se l’“uno” esista o non; ciò che si discute è invece ciò che accade al dio vedico, Prajapati, dio dell’inizio; quand’egli “era solo. Non sapeva neppure se esisteva o non esisteva”[2]. Identificato con altro termine o nome (nomen-omen; il destino nel nome), Ka, Chi? o ancora: l’“incerto”. Per la tradizione greco-antica, il divino. E quindi, anche il mistero (e i misteri) ben noto(i) a Eleusi e ancor prima a tutti i “sapienti” (sofoi) appartenenti alla tradizione antichissima degli “oracoli”, sciamani, stregoni, profeti.
Rispetto al metodo dei quali – più noto nell’antichità con il termine “mantica”, ma anche con il termine “divinazione” – nel Convivio, Platone fa dire per l’appunto a Erissimaco che “i rapporti di comunanza che sussistono fra uomini e idee (sono) cose che sono state assegnate alla divinazione per proteggere e curare gli amanti, ed è proprio la mantica autrice della amicizia fra uomini e dei per conoscere bene, tra le spinte d’amore degli uomini, quelle che tendono alla giustizia e alla pietà”.
Ma, quanto alla questione del metodo in generale, a cui si riferisce anche Heidegger all’inizio del suo Parmenide, e al concetto di “verità”[3] nello specifico, le cose – per volontà di Platone – stanno già per cambiare. Infatti, è detto molto efficacemente: “Nel Parmenide (di Platone) comincia a trasparire una nuova accezione della parola ‘dialettica’, tipica di Socrate e di Platone: originariamente designava il dialogo socratico, poi è passata a designare la tecnica argomentativa di Platone ed è anche divenuta sinonimo di ‘filosofia’”[4].
Il dado è tratto. Assistiamo così al passaggio di metodo dalla sapienza dei sofoi alla conoscenza dei filosofoi.
A tale proposito, Plutarco tuttavia commenterà: “Ammonio aveva smesso di parlare, e io stavo in silenzio. Allora Cleombroto si rivolse a me e disse: « Dunque tu ammetti che sia il dio a creare questi oracoli, e poi a distruggerli? ». « Assolutamente no » risposi. «Io sostengo che il dio non c’entra con la scomparsa degli oracoli e dei santuari. Secondo me succede come per molte altre cose, che il dio ha creato per noi e mette a nostra disposizione: in alcune di queste è la natura ad instillare rovina e annientamento. O meglio, poiché la materia è per se stessa annientamento, accade sovente che essa svanisca e si decomponga ciò che era stato creato da una causa superiore. Così io credo che l’oscuramento dei poteri profetici, e anche la loro scomparsa, siano dovuti ad altre cause. Il dio ha dato agli uomini tante cose belle, ma nessuna che sia immortale: e come dice Sofocle, anche le opere divine periscono, ma non gli dèi. « L’essenza e il potere di questi fenomeni vanno ricercati nella natura e nella materia, dicono i sapienti, salvaguardando però, come è giusto, la loro origine divina. È assurdo e puerile credere che il dio stesso, come i ventriloqui soprannominati un tempo Euricli e oggi Pitoni, entri nel corpo dei profeti e parli servendosi della loro bocca e della loro voce come strumenti. Chi mescola dio alle funzioni umane non rispetta la sua maestà, e offende la dignità e il prestigio della sua, superiore statura ». « Hai ragione » disse Cleombroto. « Ma siccome è difficile comprendere e stabilire in qual modo e fino a che punto si possa far intervenire la provvidenza, succede che nell’opinione di alcuni il dio non c’entra per niente, per altri invece egli è la causa di tutte le cose senza eccezione. Ma né gli uni né gli altri tolgono la giusta misura. E dunque dice bene chi sostiene che Platone, presupponendo un elemento sottostante alle qualità in divenire – quello che viene chiamato oggi materia o natura – abbia liberato i filosofi da molte gravi difficoltà. Ma, a mio parere, molte difficoltà ancora più gravi sono state risolte da quelli che immaginarono il genere dei demoni, a metà fra dèi e uomini, il quale istituisce in certo modo un rapporto reciproco fra noi e la divinità. Poco importa se tale teoria si debba ai magi e a Zoroastro, o venga dalla Tracia e da Orfeo, oppure dall’Egitto o dalla Frigia, come testimoniano le cerimonie di questi due paesi, pervase dal lutto e dal senso della morte sia nei riti orgiastici sia nei drammi sacri”[5].
Tanto premesso, sviluppando per altro profilo il confronto e l’analisi dei due diversi metodi, il passaggio che accade testimonia anche l’uscita da una “forma” della mente (pensiero) – che è manifestata all’esterno mediante una “forma” del linguaggio (parola) ed è soggetta a interpretazioni – e l’entrata viceversa in una “forma” del linguaggio, che comunque è soggetta a interpretazioni, ma soprattutto che diventa termine, limite e confine per se stessa, e quindi una forma chiusa, che in via ultimativa o definitiva deriva dal dialogo posto in essere; e non invece dalla profezia, in cui la parola detta resta sempre aperta in ragione degli eventi che accadono: passati, presenti e futuri.
Il tema diviene allora anche questo del giusto rapporto tra “mente” e “parola”. E, in effetti, sembra che siamo sulla buona strada della ricerca, dato che il tema ci riconduce, nella maniera forse più appropriata, alle più antiche trascrizioni vediche.
Nella narrazione della “prima creazione” vedica, che ha a che fare con la comunità degli dei (e per fare altri esempi, tra gli altri, dell’olimpo greco e della comunità angelica del dio ebraico-cristiano), Prajapati-Ka assiste a una contesa, che sembra non esaurirsi, tra le due diverse stirpi divine degli Asura e dei Deva. Attraverso il lungo excursus nella cultura vedica di Roberto Calasso, dalla lettura in particolare del saggio L’ardore emerge innanzitutto quanto segue:
“Una volta accadde che gli Asura arroganti, ‘ continuavano a sacrificare nella propria bocca’, mentre i Deva preferivano sacrificare gli uni agli altri. A quel punto il loro padre, Prajapati, elesse i Deva e affidò a loro il sacrificio”[6]. Interrompo il discorso per una brevissima ma importantissima parentesi, facendo notare che è possibile ritrovare i contenuti di questa più antica narrazione in altre narrazioni mitologiche – attinenti al rapporto tra le divinità e, all’atto della creazione umana (o “seconda creazione”) tra la divinità e gli uomini – che seguiranno. Riprendendo quindi esattamente da dove interrotto: “Li preferì perché, prima ancora di sapere con precisione a chi dovevano offrire, avevano accettato che l’offerta fosse qualcosa di esterno, che passava da un essere a un altro, rompendo la membrana dell’autosufficienza, ricordo del corpo informe di Vrtra, il mostro primordiale”[7].
Ma, occorre anche rilevare che gli Asura avevano partecipato a lungo della contesa, svoltasi dunque, in tutta evidenza, a fasi alterne; e quindi, occorre una ragione anche a questo. Più avanti nel testo ora in esame, Calasso infatti annota: “Nella storia di Yajna e Vac, il presupposto è che i Deva vincano la loro guerra perché hanno scelto la parte della Mente e del Sacrificio. Ma al tempo stesso essi sentono acutamente il bisogno di Vac, potenza prima della parte avversa. Mente deve innanzitutto affermare la sua supremazia su Parola, in quanto l’operare di Mente include in sé il linguaggio, ma lo travalica anche. Pensare non è un atto linguistico: questo era un fondamento della speculazione dei rsi. Ma pensare può anche essere un atto linguistico, quando i Deva, attraverso Yajna, saranno riusciti a condurre Vac dalla loro parte. E quel passaggio comporta un esaltarsi della potenza implicita nei Deva, oltre che la disfatta degli Asura”[8].
Inoltre, c’è ancora un’altra ragione che occorre spiegare: “Parola e Mente devono stare entrambe dalla parte dei Deva, ma non devono essere congiunte: quella copula, l’intesa intima fra Mente e Parola, finirebbe per creare un essere di potenza tale da sopravanzare quella dei Deva. E i Deva vivono, sin dall’inizio, nel terrore di un tale momento”[9]. E’ lo stesso terrore che attanaglia Zeus di fronte alla mancata rivelazione di Prometeo, che conosce il segreto per cui Zeus stesso, per una sorta di rinnovato parricidio, come tutte le divinità della tradizione degli uomini, sarà detronizzato e sostituito da una divinità con diverso nome. Allo stesso modo di cui dice Parmenide: “tutte gli fanno da nome le cose supposte dagli uomini, fidenti che siano vere, nascano, muoiano, ‘siano’ una cosa, ‘non siano’ quest’altra, cambino posto, mutino la loro pelle apparente”[10].
E ancora, è accaduto anche qualcos’altro, perché Parmenide si esprima in questi termini. Così che, scrive ancora Calasso: “(I Deva) con pena e fatica si sono conquistati il cielo e l’immortalità (e) ciò è avvenuto in conseguenza del feroce intervento di Indra (il re delle origini): una delle sue imprese vili e misteriose, che hanno però conseguenze vastissime. Così il rapporto fra Mente e Parola si stabilì quale si sarebbe dato poi nel mondo: non già una coppia di amanti, ma una visione orripilante, che ricordava un assalto brutale. Un essere maschile, Sacrificio, porta sulle testa l’utero lacerato della sua amante Parola, dove non potrà mai versare il suo seme”[11]. Si chiude così la storia del primo “cerchio” – immediatamente prima, e dunque si tratta anche qui della storia degli uomini?, al momento vi lascio questo interrogativo – che inizi la storia del secondo cerchio, che è quella della seconda “creazione” degli uomini.
“Allora”, avrebbe poi ripetuto Parmenide, “di via resta soltanto una parola, che ‘è’”[12].
Nonostante Platone, nel Convivio, chiamando a testimone lo stesso Parmenide, sia ancora convinto che sia possibile costruire una relazione di “Amore” tra dio e gli uomini, capovolgendo perfino i contenuti del rapporto tra “amante” e “amato” così come viceversa inteso dalla tradizione greca che lo aveva preceduto: “Ma in realtà gli dei onorano particolarmente questa virtù che è insita in amore e ancor più ammirano e si compiacciono e fanno del bene quando è l’amato che rivela il suo amore all’amante, che non quando è l’amante a rivelarlo all’amato”. E quindi, secondo questo giudizio di Platone, l’uomo non ha più titolo e diritto originario ad avere l’amore degli dei; viceversa, è un bene che ha il dovere di conquistarsi. Da qui deriva dunque un altro importantissimo passaggio, tuttora pieno di gravi conseguenze: il passaggio dalla storia biblica veterotestamentaria dell’ebreo (amato) alla storia biblica neotestamentaria del cristiano (amante). Ma, per lo stesso Platone, la storia non finisce qui. Anche se, nel Convivio, abbia inizio ancora nel modo siffatto: la creazione (degli uomini) è intesa infatti come il passaggio della “produzione”, che è “causa”, dal “non essere” all’“essere”. Ma questo, prima che tale assunto sia poi sottoposto alla critica, definitiva, del Parmenide.
E pertanto, andiamo ora alla seconda (II) conclusione definitiva presente nel testo: “ – Lo si dica, allora, e si dica anche che, a quanto sembra, sia che l’uno sia, sia che l’uno non sia, esso e gli altri, tanto in rapporto a se stessi quanto nelle loro relazioni reciproche, sono e non sono, appaiono e non appaiono, tutti i predicati in tutti i modi. – Verissimo”.
Qui, un primo rilievo al testo concerne l’espressione, così tradotta – cosa che in generale è sempre bene ripetere, ma che nello specifico ci riporta alle considerazione, che condivido, esposte in argomento da Heidegger nel suo Parmenide, già citato: a quanto sembra. Il termine usato nel testo greco è “eoiken”, che sta per “è simile” o “assomiglia” o anche “sembra”. Il discorso si svolge infatti all’interno del secondo cerchio della creazione e quindi necessariamente procede mediante “immagini e somiglianze” di parole usate nel discorso che concerne il primo cerchio, anzi, in definitiva, come sembra, quell’unica parola, che “è”. E pertanto, “a quanto sembra”, anche da qui nasce ogni problema, come riportato nel testo seguente, che ancora una volta ripetiamo: “sia che l’uno sia, sia che l’uno non sia, esso e gli altri, tanto in rapporto a se stessi quanto nelle loro relazioni reciproche, sono e non sono, appaiono e non appaiono, tutti i predicati in tutti i modi”.
– Sia che l’uno sia, sia che l’uno non sia. Abbiamo qui ora a che fare con il predicato dell’esistenza dell’“uno”.
– Esso e gli altri, ovvero ogni cosa: l’“uno” e il “molteplice”.
– Tanto in rapporto a se stessi quanto nelle loro relazioni reciproche. Ovvero, l’“uno” in rapporto all’“uno” così come anche il “molteplice” in rapporto al “molteplice” e inoltre l’“uno” e il “molteplice” in rapporto tra loro.
– Tutti i predicati in tutti i modi: sono e non sono, appaiono e non appaiono.
Ripetiamo: tutti i predicati in tutti i modi – Parmenide stesso avrebbe aggiunto possibili – sono e non sono, appaiono e non appaiono. E dunque, cosa significa esattamente questa conclusione assertiva?, che trova conferma definitiva nella risposta di Socrate: Verissimo.
Nel Parmenide di Platone, il tema centrale è il rapporto tra le “idee” intellegibili e le “cose” sensibili, relazione che Platone affronta mediante il tema della compartecipazione tra l’“uno” e il “molteplice” e, in analogia, della condivisione tra la divinità e gli uomini. La critica si snoda attraverso quattro distinti argomenti, che provo a semplificare:
a) in ordine al concetto di “presenza”, Platone ipotizza che il rapporto di compartecipazione si basi su un’unica idea presente in più cose. Ma, così supponendo, l’idea del molteplice non sarebbe riconducibile ad alcuna unità e pertanto di idee ne risulterebbero molte;
b) supponendo invece che esista un’idea che “unifichi” più cose, analogamente ne deriverebbe tuttavia che tutte le cose avrebbero una cosa in comune con l’idea (l’argomento è noto come argomento del “terzo uomo”), e quindi, essendo le cose molteplici, anche le idee risulterebbero molteplici;
c) il terzo argomento riguarda il contenuto “astratto” dell’idea: se esiste un’idea del “bene”, allo stesso modo deve tuttavia esistere un’idea del “male” (diversamente da Agostino d’Ippona, che individua nel “male” la mancanza del “bene”; ma, gli avrebbe obiettato Parmenide: ogni essere è e non può non essere, dato che il non essere non è né lo puoi pensare, separatamente, dall’essere che solo “è”), e quindi anche in tal caso un solo predicato, quale che sia, dell’“uno” si rivela logicamente impossibile;
Nel Parmenide di Platone, è trattato un quarto e ultimo argomento, che Platone stesso per bocca di Parmenide, giudica decisivo (megiston dè tòde):
d) l’idea intellegibile deve necessariamente essere separata dalle cose sensibili, perché è questa separazione – fondativa del pensiero greco, così ben nota ad Anassimandro[13] – che consentirebbe potenzialmente (Aristotele) all’idea di essere attualmente (Aristotele) l’unico principio ordinatore, cosmogonico, che si oppone a quello viceversa caotico della tradizione più antica esiodea. Ma: se questa separazione (che Aristotele giustifica in base alla figura rappresentativa del dio motore immobile) permane viceversa sempre immutata, allora accade pur sempre che non può (e non deve) in alcun modo salvarsi l’idea dell’unicità del molteplice.
L’essere che “è”, pertanto, è e resta solo, solitario, senza alcun predicato che lo accompagni, pur relazionandosi tuttavia a tutti i predicati in tutti i modi, possibili; così che “dato che tutte le cose si chiamano tenebra e luce, ciascuna secondo efficacia di queste sull’una o sull’altra, tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile, entrambe alla pari, nulla pertiene né all’una né all’altra” (Parmenide, Poema sulla natura, fr. 9).
Si tratta di un sistema di relazioni, l’unico possibile, che “è”.
25/12/2017 Angelo Giubileo
[1] Nel testo di commento a cura di Franco Ferrari, ed. BUR 2016
[2] R. Calasso, Ka, ed. 2016, p. 35
[3] “… Anche se già nel ver viene sfiorato, nel mondo romano l’ambito del velamento e del disvelamento non diventa affatto l’ambito essenziale decisivo in base al quale si determina l’essenza della verità. Compreso in base all’imperiale, il verum si pone immediatamente come il rimanere in alto, che indica il retto; veritas è rectitudo, noi diciamo ‘correttezza’ (Richtigkeit)”. Ndr: nel linguaggio godeliano della matematica il termine ritenuto più appropriato sarà ‘coerenza’. Il testo così prosegue: “Ora, però, questa caratterizzazione originariamente romana dell’essenza della verità, che fissa il tratto fondamentale onnidominante della struttura essenziale dell’essenza della verità occidentale, accoglie spontaneamente uno sviluppo dell’essenza della verità che si profila già in seno alla grecità e che contrassegna al tempo stesso l’esordio della metafisica occidentale”. E, qui per finire, il testo prosegue quindi con l’introduzione di un altro paragrafo dal titolo giustappunto: Il mutamento dell’essenza dell’aletheia a partire da Platone.
[4] http://www.filosofico.net/par.html
[5] In Plutarco, La fine degli oracoli
[6] R. Calasso, L’ardore, Adelphi 2010, p. 37
[7] Ibidem
[8] Ibidem, p. 150 s.
[9] Ibidem, p. 151 s.
[10] Poema sulla natura, BUR 1999, fr. 7/8 vv. 43-46
[11] Op. cit., p. 152
[12] Op. cit., fr. 7/8 vv. 6-7
[13] La traduzione più letterale del detto, secondo Heidegger, dice: “Ma da ciò da cui per le cose è la generazione, sorge anche la dissoluzione verso di esso, secondo il necessario; esse si rendono infatti reciprocamente giustizia e ammenda per l’ingiustizia, secondo l’ordine del tempo”.