Aldo Bianchini
SALERNO / SCAFATI – Quando si vuole esprimere il proprio pensiero in materia di giustizia penale è necessario farlo prima che le cose accadono, con il senno di poi tutti siamo bravi a pontificare ed a schierarci subito dalla parte del vincente. Sono rimasto colpito dall’udienza di mercoledì 14 settembre 2017 celebratasi dinanzi al tribunale del riesame di Salerno (pres. Gaetano Sgroia, a latere Giuliano Rulli e Dolores Zarone) e da alcuni particolari che dalla stessa sono emersi a carico e/o in favore del principale imputato del caso “Sarastra”, cioè l’ex sindaco di Scafati Pasquale Aliberti. Particolari che, a mio modo di vedere, consentono di scrivere alcune osservazioni e di esprimere il proprio pensiero nel merito degli accadimenti processuali.
Innanzitutto non mi convince una cosa importante nell’ambito del legittimo esercizio da parte della magistratura del diritto all’indipendenza ed all’autonomia di giudizio. Questo principio è validissimo in ogni senso, ma non può esserlo soltanto per i magistrati e deve, non soltanto essere ma anche apparire, per gli indagati e/o gli imputati nell’ottica di quella richiesta terzietà del giudice in genere e, soprattutto, del tribunale del riesame.
Ogni giudice o pubblico ministero che sia, prima di tutto è un uomo che porta le sue convinzioni personali, umane e politiche nel suo lavoro; per quanto mi riguarda non esiste al mondo un solo giudice che non abbia le proprie convinzioni e che, piaccia o no, sia capace di tenere lontano dai suoi giudizi le convinzioni che lo accompagnano da sempre e per tutta la vita. E’ un fatto naturale, non ci dobbiamo scandalizzare, è stato da sempre così e sarà sempre così; il giudice è un uomo in carne ed ossa, mica è un mostro costruito in laboratorio.
La cosa che non capisco è il perché per vicende giudiziarie similari debbano essere sempre gli stessi giudici a decidere, anche perché così viene meno il sacrosanto diritto dell’indagato ad avere di fronte più giudici che la pensano in maniera diversa a garanzia della presunta obiettività della giustizia. Spesso ho fatto il paragone tra l’inchiesta Sarastra e le altre attivate sullo stesso territorio dell’agro nocerino-sarnese, prima fra tutte “Linea d’ombra” sul comune di Pagani che portò in carcere l’ex sindaco Alberico Gambino.
Ebbene in entrambe le vicende si rileva la presenza degli stessi giudici chiamati a chiedere i provvedimenti ed a decidere sulla concessione e/o il rigetto degli stessi. Senza infingimenti parlo del pm Vincenzo Montemurro e del gip Gaetano Sgroia che nel caso di “Linea d’ombra” evidenziarono una linea di pensiero perfettamente identica, cioè la colpevolezza di Gambino, poi mandato quasi del tutto assolto e si aspetta la Cassazione per cancellare gli ultimi residui di una pena a dir poco ridicola. Perché mi sono chiesto anche nel caso “Sarastra” c’è lo stesso PM, lo stesso GIP e addirittura sempre quel GIP impegnato come presidente del Tribunale del Riesame. Dico questo per scrupolo e amore e nell’assoluto rispetto della libertà di pensiero e della terzietà del giudice che può sacrosantemente avere il proprio legittimo e intoccabile pensiero. Mi interrogo, piuttosto, sul perché chi decide l’assegnazione dei fascicoli processuali non abbia in conto un minimo di storia del distretto e lavori affinchè simili casualità non accadano più; tutto, lo ripeto, nell’ottica del rispetto dell’autonomia e indipendenza del giudice ma anche del rispetto che ogni indagato dovrebbe avere nell’essere giudicato da più giudice e non sempre dagli stessi.
Dico questo perché è utile ricordare a tutti, magistrati compresi, che “mani pulite” in grandissima fallì perché ci fu un errore iniziale, un vulnus che ebbe ripercussioni su tutti i processi. Quale ? In ogni inchiesta c’erano sempre gli stessi quattro pm (Antonio Di Pietro, Piercamillo Davigo, Gherardo Colombo e Francesco Greco) ed un unico gip (Italo Ghitti); certo che il pool funzionava a meraviglia, avevano tutti la stessa linea di pensiero, i provvedimenti restrittivi richiesti venivano subito concessi, e da loro partì il giustizialismo non certo la giustizia.
C’è da sperare che a Salerno non si ripeta la stessa storia, e questo lo dico a garanzia di tutti e non specificamente l’indagato Aliberti che l’altro giorno si è dovuto difendere in sede di riesame ed ha dovuto affrontare un’altra accusa arrivata come d’incanto all’ultimo minuto. Mi riferisco alla deposizione che l’ex vice sindaco di Scafati, Giancarlo Fele, ha reso tempo fa nelle mani del pm Montemurro. Fele asserisce di essere stato compulsato da Aliberti che lo avrebbe indotto a deporre in suo favore. Siamo di fronte ad un altro caso di presunta subornazione (la prima fu registrata nel corso del processo Linea d’Ombra con l’accusa di un dirigente comunale di Pagani contro l’allora segretaria Perongini); credo che l’avvocato Silverio Sica (tra i difensori di Aliberti) ricorderà benissimo l’ordinanza istruttoria del 1983 con cui l’allora capo dell’ufficio istruzione di Salerno mandò assolto un indagato accusato di aver indotto i testi a dichiarare fatti e circostanze in suo favore. Ebbene il G.I. sancì un principio cardine: l’indagato ha il diritto di parlare con i testimoni purchè lo faccia per ristabilire la verità. Dunque il giudice prima di accusare deve accertare se l’indagato ha avvicinato il teste per indurlo a dire la verità o il falso. Solo così si potrà fare vera giustizia.
Con una certa trepidazione attendiamo, ora, la decisione che il Riesame si è riservato di esprimere e che non potrà arrivare prima di una decina di giorni e non solo perché agli atti del collegio giudicante mancavano le relazioni difensive predisposte da Silverio Sica e Agostino De Caro, relazioni sbadatamente dimenticate negli uffici competenti.
direttore: Aldo Bianchini