Ferrante Sanseverino e la cultura a corte

Del prof. Giovanni Lovito (scrittore)

SALERNO – Se in ambito politico la personalità e l’autorità del principe salernitano sembrano essere state costantemente sottoposte al giogo sfavorevole e ostile degli eventi storici e, soprattutto, della ‘nemica’ fortuna, ciò non avvenne, invece, nel campo della cultura, come tenne a confermare, decenni fa, Alessandro Fava:

«Ma accanto al barone prepotente e riottoso verso l’autorità regia, noi troviamo, in lui, il perfetto cavaliere e signore del ’500, che accoglie alla sua Corte poeti e uomini illustri, che si diletta di poesia e di musica, ed è capace di gesti regali ed è pronto a tradire come a morire per non venir meno alla fede data. […].Con Ferrante si estingue la Casa dei Sanseverino che, come abbiamo accennato, aveva fatto tremare re e vacillare troni. Anch’egli, come gli altri della sua stirpe, ebbe momenti di grande splendore e non fu un troppo tirannico signore pei suoi sudditi: che anzi […] molto fece per la città di Salerno, la quale sotto il suo governo attraversò un’epoca di splendore. » (A. FAVA, L’ultimo dei baroni: Ferrante Sanseverino, in «Rassegna Storica Salernitana» XVIII (1943), pp. 58; 82).
.

Nato da una nobile famiglia affermatasi particolarmente nel periodo normanno , Ferrante aveva sposato la poetessa Isabella Villamarina (figlia di Bernardo, conte di Capaccio e grande ammiraglio del regno), anch’essa molto ‘vicina’ ai tanti letterati e studiosi che convennero alla corte salernitana. I principi convolarono a nozze ancora fanciulli il 17 ottobre del 1516, come dimostra questo breve passo estrapolato dalle Cronache di Giuliano Passero:

«Alli 17 de octobre 1516, de giovedì, se inguadiai la figlia di Villamarina Catalano, et pigliai per marito lo signor D. Ferrante Sanseverino, principe de Salierno, et gli donai in dote 40 milia ducati et a sua morte erede di tutti li suoi beni. Gli detti marito e mogliere erano de circa 10 anni».

Il Carucci, nel suo saggio su Ferrante, circa un secolo fa asserì che «nella magnifica corte di Salerno e nel suo palagio maestoso di Napoli fatto fabbricare dal suo proavo Roberto, il principe raccoglieva intorno a sé gli uomini più eruditi nelle scienze e i più illustri letterati d’Italia» (C. CARUCCI, Don Ferrante Sanseverino: principe di Salerno, Salerno 1899, pp. 7-8). Coadiuvato nella sua attività di mecenate dalla moglie Isabella, il ‘signore’ divenne ben presto un vero e proprio punto di riferimento per i tanti letterati della Salerno rinascimentale, superando, nel campo del sapere e della cultura, i suoi antenati e concorrendo in modo evidente allo sviluppo di buona parte del territorio campano. Appassionato di teatro, nella dimora napoletana fece rappresentare varie commedie, mentre contribuì altresì allo sviluppo della Scuola Medica Salernitana, patrocinando il medico Paolo Grisignano (autore del Commento agli aforismi di Ippocrate). Costantino Gatta ricordò, ancora, come il princeps, oltre ad essere stato amico «di uomini virtuosi e di valore», avesse accolto nella sua corte «i primi letterati d’Italia, in ogni facoltà e scienza» tra cui Bernardo Tasso «celebre poeta e padre del gran Torquato» (C. GATTA, Memorie topografico-storiche della Provincia di Lucania, a c.di F. LA GRECA, Agropoli 2000, p. 461).
L’istruzione e la formazione politica di Ferrante risentirono dell’influenza dei grandi filosofi e pensatori dell’Umanesimo italiano. Tra gli stessi ricordiamo Pomponio Gaurico che, nativo di Giffoni, s’era trasferito a Napoli sotto il regno di Ferdinando I d’Aragona, mentre fra il 1500 e il 1510 dimorò a Padova, dove compose alcune poesie latine giovanili e pubblicò altresì i Fragmenta dello Pseudo Gallo (1501), il commentario di Ammonio In quinque voces Porphyrii (1502) e il dialogo De sculptura (1502). Soggiornò prima a Roma e successivamente a Napoli, nel cui Studium fu onorato e stimato docente di lettere latine e greche. Il padre Bernardino, noto grammatico ed erudito del tempo, lavorò alla corte napoletana, frequentando i dotti e i letterati che si riunivano intorno agli Aragonesi, tra cui Giovanni Pontano e Sannazaro. Che il Gaurico sia stato maestro e tutore del principe salernitano viene suffragato da un passo fondamentale riportato dal Percopo: «Per dodici anni Pomponio insegnò al principe ed alla principessa, Isabella Villamarina, ancor fanciulli e sposi, le lettere latine e greche» (E. PERCOPO, Pomponio Gaurico umanista napoletano, Napoli 1894, pp. 71-72). Il Tiraboschi, invece, asserì: «Pomponio Gaurico, fratello di Luca, di cui abbiamo ragionato nel trattare degli astronomi, ci viene dal Giraldi giustamente dipinto come poeta non privo di ingegno e di grazie, ma troppo molle e lascivo. Di lui parla il Giovio, e riflette che avendo voluto rivolgersi al tempo medesimo a molti studi, in niuno poté divenire eccellente. Ei fu professore nell’università di Napoli, e maestro ancora di Ferrante Sanseverino, principe di Salerno» (G. TIRABOSCHI, Storia della Letteratura Italiana, a c. di Niccolò Bettoni, IV, Milano 1833, p. 236). L’Ammirato, nel suo trattato sulle famiglie nobili napoletane, rilevò come i principi salernitani «facessero onore al maestro», dilettandosi nella musica e nelle lettere; da altre fonti, infine, sappiamo che il precettore del Sanseverino fu assassinato nel 1530, mentre si recava da Sorrento a Castellammare, per aver amato un’illustre e nobile donna napoletana (TIRABOSCHI, Storia della Letteratura Italiana cit., IV, p. 236) .
Nel periodo rinascimentale Salerno diventava una delle più importanti e prestigiose (almeno da un punto di vista prettamente culturale) città italiane; ciò avveniva grazie al suo munifico principe, cultore delle lettere e di filosofia, amico e ‘protettore’ di illustri poeti e scrittori, tra cui Ludovico e Vincenzo Martelli, Scipione Capece, Matteo Macigni, Bernardo Tasso, suo segretario, Agostino Nifo e altri minori [cfr. L. CASSESE, Agostino Nifo a Salerno, in «Rassegna Storica Salernitana», XIX (1958), pp. 9-10]. Su tutti eccelse la consorte del principe, Isabella Villamarino, la quale «di quante donne belle, cortesi e colte fiorirono nel regno nella prima metà del Cinquecento, fu tra le prime e la più infelice». Come Caterina Sforza e Isabella Gonzaga, la principessa divenne l’esempio emblematico della dama curtense proclive ad accogliere in città i poeti e gli scrittori del tempo, per questo «istimata e grata più che tutte le altre a Carlo V». L’Imperatore, in effetti, qualche anno dopo l’incoronazione in Bologna raggiunse Napoli, ricevuto dal principe di Bisignano che, per l’occasione, bandì in suo onore una grande caccia all’interno dei suoi possedimenti. Molte furono le feste a cui partecipò il sovrano d’Asburgo, dilettandosi soprattutto durante gli intrattenimenti teatrali con l’allora trentenne Isabella. Non solo. Si narra che nel corso del suo trasferimento verso Palazzo Sant’Agostino, dove s’era riunito il Parlamento cittadino, trovandosi nei pressi della casa del Sanseverino «riguardò bravamente la principessa la quale, seguendo l’uso del tempo, aveva forse fatto distendere sul balcone ricchi drappi e cuscino e si era affacciata per vedere la nobile cavalcata, non certo insensibile a l’ammirazione del Sovrano» (L. COSENTINI, Una dama napoletana del XVI secolo: Isabella Villamarina Principessa di Salerno, in «Rassegna Pugliese di scienze, lettere ed arti», n. 1, Trani-Bari 1895-96, p. 211). Da quel giorno, Carlo non rinunciò a vederla, a conversare e ballare con lei, suscitando l’invidia delle numerose dame e principesse del regno. Quelli furono i giorni più belli e felici della vita d’Isabella che, corteggiata dal sovrano, «si vide d’un tratto fatta segno a l’ammirazione di tutti i cortigiani». Poeti e signori unirono le loro voci «in un coro inneggiante alla sua bellezza, alla sua bontà, alla sua virtù, alla sua grazia». Tra gli stessi ricordiamo il napoletano Giambattista Del Pino che, in ottava rima, così decantò e celebrò la giovane principessa salernitana:

Risguardar la beltade in forma propria
Gran tempo ebbe in desio l’umana gente,
Ma dal debol veder la troppa copia
Che mirar tanto obbietto è men possente.
Gliel vietò sempre. Alfin a tanta inopia
Ben parve provvedere a la prudente
Natura. Onde diss’ella: Or farò io
Che il mondo una parte abbia del desio.

Ed una stampa fece con quanto ella
Ebbe saper ed arte, sol per trarne
quel che aveva in cuore; e poi avesti la bella
Invisibile beltà d’umana carne,
E di tal misto ne stampò Isabella
Villamarina. E teco può ben farne
Ogni vista mortale giudizio intero
Ch’ella è vera beltà, qual vero il vero,

Pensier canuti in giovanil etade
Splendon non meno in lei che stelle in cielo
Modesta leggiadria con puritade
Copron le belle membra ed or fan velo
Senno l’è consiglier con lealtade
Che le scaccian dal cuore e caldo e gelo,
Che potesse noviar l’alma pudica
E la fan di virtù, non d’altra amica.

Seguirono i versi del Cardinale Geronimo Borgia che proclamò Isabella «luce e gloria del femineo sesso, prima in Italia fra tutte le donne per pudore e bellezza, per pietà e sapere»:

Una aevi lux hujus et inclita sexus
Gloria faeminei domina qua dulce Salernum
Se jactat, felix gaudet qua coniuge princeps
Ausonia procerum, muliebris ut illa decoris
Insignis formae pietate pudore Minervae.

Riportiamo, infine, un significativo sonetto con cui la poetessa Laura Terracina, oltre a ricordare e immortalare l’ameno litorale (scoglio) salernitano, decantò la principessa, ispiratrice ed emblema di somma virtù:

L’alto mar di virtù qual bramo e voglio
Che nel mondo d’Alerno sì lieta e bella
Ognor m’imprime al cor l’alma Isabella
Cagion farmi cantar più che non soglio.

A tal Villamarina ed a tal scoglio
U Eolo nulla val con sua procella
Hor in quest’una parte et hor in quella
L’ignuda barca mia lego e discioglio.

E temendo d’assai che a caso un giorno
Dagl’invidi e superbi mi sia tolto
Mi struggo, mi consumo, mi sconforto.

Così pensosa rimirando intorno
Odo ch’un dice: Non temer più stolta
Quest’è la via del tuo tranquillo porto.

Della poetessa e della munificenza con cui Ferrante Sanseverino era solito accogliere a Salerno gli studiosi italiani, accrescendo, in tal maniera, la fama e il decoro di quell’Università, scrisse il Tiraboschi: «Non mancò a quel regno chi saggiamente pensasse a fare sempre più fiorire gli studi. Ferrante Sanseverino, principe di Salerno, era amatore insieme e protettore de’ buoni studi, e del coltivarli ch’egli faceva, abbiamo in pruova alcune leggiadre Rime che si leggono tra quelle di Laura Terracina. […]. Ora egli formò l’idea di riaprire in Salerno lo studio che eravi una volta sì celebre, singolarmente pel valore de’ suoi medici» (G. TIRABOSCHI, Storia della Letteratura Italiana cit., III, p. 353). In alcune significative epistole, Bernardo Tasso menzionava il giurista Giannangelo Papio (invitato più volte a Salerno) e Matteo Macigni, quest’ultimo condotto dallo stesso Ferrante alla lettura di filosofia nello Studium della città. Uno Studio voluto, alcuni secoli prima, da Corrado di Svevia, come tenne a confermare ancora una volta lo storico settecentesco:

«Dopo la morte di Federigo, avvenuta l’anno 1250, veggiamo improvvisamente aperto un altro studio generale in Salerno da Corrado di lui figliuolo che gli succedette, ma che presto gli tenne dietro, morendo l’anno 1254 (TIRABOSCHI, Storia della letteratura italiana cit., II, p. 32).

L’editto con cui il sovrano tedesco promuoveva e suggellava l’istituzione del nuovo centro di cultura salernitano è stato pubblicato da Padre Martène. Nello stesso, il discendente di Federico, deciso a contrastare per motivi ‘civili’ e politici lo Studium napoletano, elogiava ed esaltava l’antica Universitas salernitana, definendola «sede e madre antica di studio». Sarà Manfredi, qualche anno dopo, a ridare lustro e vigore all’Università partenopea, mediante un ulteriore editto in cui sottolineava il grave stato di abbandono e decadenza in cui versava quell’ateneo. La ricca documentazione del Martène, inoltre, comprova che papa Clemente IV inviò una lettera a Carlo I, re di Sicilia, esortandolo «perché, essendo ormai terminate le turbolenze da cui era stato in addietro sconvolto quel regno, ei si rivolga a riformare e far di nuovo fiorire felicemente l’Università di Napoli».
Ferrante Sanseverino ebbe come suo segretario Bernardo Tasso e non esitò ad invitare nella Salerno rinascimentale i grandi poeti e scrittori del tempo, tra cui Scipione Capece, Ludovico e Vincenzo Martelli e, in modo particolare, il filosofo Agostino Nifo, che pubblicò altresì i Ragionamenti col principe di Salerno sopra l’Etica di Aristotile. Al filosofo sessano Ferrante concesse, oltre lo stipendio come professore, una pensione a vita di duecento ducati l’anno. Nato a Sessa, in Terra di Lavoro, il Nifo era giunto a Salerno nel 1507, invitato da Roberto II Sanseverino per insegnare filosofia in quella città. Circa il luogo di nascita, varie sono le ipotesi divulgate nel corso dei secoli. Alcuni hanno ritenuto che il filosofo fosse nato a Joppoli, in Calabria, altri a Tropea, altri, tra cui il Giovio, a Sessa Aurunca, nel Casertano. Scrisse, a tal proposito, Bernardino Tafuri: «Agostino Nifo, o Niffo, celebre filosofo, e medico del tempo suo, nato in Joppoli, luogo della Calabria ultra, o in Sessa come altri sostengono […]» (B. TAFURI, Delle scienze e delle arti inventate, illustrate ed accresciute nel Regno di Napoli, Parrino, Napoli 1738). Il Tiraboschi confermò: «Jopoli nella Calabria, Tropea nell’(Abruzzo)? e Sessa in Terra di Lavoro si contendono a vicenda la gloria di avergli data la nascita. Ma se è vero ciò che il Tafuri afferma, che il medesimo Nifo in una sua opera da me non veduta dica: Suessa, ubi sum natus, non vi ha luogo a contesa» (TIRABOSCHI, Storia della Letteratura Italiana cit., III, pp. 470-471). Noi ci atteniamo a quanto, sulle orme del Giovio, riportò il Tafuri nel suo trattato sulle scienze e sulle arti nel Regno di Napoli:

«Ma nato in Sessa lo vuole Monsignor Giovio assai attento scrittore, e nativo di Sessa si dice Egli stesso, dove il suo avo Domizio venne da Tropeia ad abitare, e vi prese moglie, e vi generò Giacomo Padre di Agostino: onde universalmente si appella Agostino Nifo di Sessa. E di lui se ne possono gloriare per varie guise e Tropeia, e Joppoli, e Sessa; ed anche Salerno, dove fu medico del Principe, e con singolarità fu ascritto tra’ Senatori di quel rinomato Collegio Ippocratico» (B. TAFURI, Delle scienze e delle arti inventate cit., p. 23).

Qualche anno prima, Elia D’Amato, sostenendo la tesi dei natali calabresi, nella Pantopologia Calabra aveva scritto:

Patria Augustini Niphi, de quo Barrius […], quem Sinuessani, quasi Iulia lege repetunt Sinuessam. Hic, cum jam puer, mortua matre, a patre et a noverca, (duxerat enim ejus pater aliam uxorem) male haberetur, aufugit domo, et se Neapolim recepit. Quem praeclaram prae se indolem ferentem Sinuessanus quidam cum esset intuitus, Sinuessam in domum suam duxit, ut liberis suis inserviret: qui quod acris ingenii, ac gloriae cupidus esset, simul cum illis literarum studio incubuit, atque inde cum eisdem Patavium profectus philosophiae studio acriter navavit operam. Cumque postea Sinuessam, ac Neapolim reversus, patrem omnia bona dilapidasse, atque subinde mortuum esse percepisset, noluit amplius Iopolim patriam suam redire, sed Sinuessae uxorem duxit, et Neapoli multos annos Philosophiam publice est professus» (E. D’AMATO, Pantopologia calabra, Mosca Editore, Napoli 1725).

Da Roberto Sanseverino il filosofo aveva avuto altresì l’incarico «d’éclaircir toutes l’oeuvres d’Aristoteles» (P. BAYLE, Dictionnaire historique et critique, n. e., t. XI, Parigi 1820, p. 177),
anche se – va detto – dopo la morte del signore salernitano (1508) si trasferì a Napoli (1510-1514), Roma (1514-1518) e Pisa (1519-1524). Nel 1510, lo scrittore si trovava a Napoli; successivamente passava alla corte di Leone X, dove venne nominato Conte palatino con facoltà «di insignirsi della armi dei Medici» e di concedere, con altri due o tre professori, la licenza di Baccelliere e i gradi dottorali in Diritto canonico e civile; poté nominare, inoltre, notai e giudici «col rispetto del giuramento di fedeltà al pontefice». Fu, quello, il periodo in cui la Corte romana, retta dal Pontefice della famiglia de’ Medici, attirò la maggior parte degli studiosi e dei filosofi italiani, come tenne a confermare l’Emiliani:

«I letterati da ogni dove correvano a Roma. I primi arrivati strapparono alle generose mani di lui onori ed emolumenti, gli altri ebbero promesse e sterili cortesie. Leone, che nelle sale paterne aveva ereditato il gusto per le lettere latine, le fece precipuo obietto del suo patrocinio; e spesso era veduto fra lo splendore delle feste di che sempre romoreggiava il palazzo Vaticano, improvvisare versi latini, e tenzonare a forza di latini epigrammi co’ suoi mansueti ed amorevoli cortigiani. […]. I protetti lo esaltavano come il più grande sovrano de’ tempi moderni, il promotore delle arti e delle lettere; e il popolo sbalordito dal lusso e dalla pompa della corte di lui, ripetendo il grido de’ cortigiani, acclamava Leone pontefice massimo, protettore delle lettere e delle arti» (P. EMILIANI-GIUDICI, Storia della Letteratura Italiana, II, Le Monnier, Firenze 1855, p. 10)

Dal 1519 al 1524 il Nifo si trasferì a Pisa e in quegli anni, per il suo pensiero filosofico intinto di averroismo, attirò su di sé i sospetti dell’Inquisizione, alla quale riuscì a sfuggire mediante l’appoggio del vescovo di Padova Pietro Barozzi. Ritornato a Salerno nel gennaio del 1525, nello Studium della città ottenne la cattedra di filosofia. Una cattedra in cui lo studioso, ormai cinquantenne, dovette davvero eccellere, se, invitato dai Bolognesi a ritornare nella civitas emiliana per sostituire l’ormai defunto Pomponazzi, fu costretto a rimanere a Salerno dallo stesso Ferrante che, intanto, lo aveva proclamato «nostri(s) temporibus alter Aristoteles»:

«Al tempo medesimo ampie offerte gli fecero i Bolognesi. E pare che essi credessero certamente di averlo dopo la morte del Pomponazzi; perciocché il Casio, che allora appunto scrivea, dice:

Hormai di sospirare e pianger cessa
Studio orbato del Mantoan decoro,
Dipoi che ’l dotto tuo Monsignor Goro
Per te condotto ha nuovamente il Sessa.

Ma la cosa non riuscì, perché il principe di Salerno il volle seco» (G. TIRABOSCHI, Storia della Letteratura Italiana cit., III, p. 471).

Da una lettera del Bembo al Minio, scritta nel 1525, sappiamo che i Bolognesi avevano offerto al filosofo 800 fiorini d’oro, mentre Ferrante volle che lo scrittore tenesse la cattedra di filosofia presso lo Studium della città di Salerno, dove morì, per un carcinoma alla gola, presumibilmente intorno all’anno 1545. Ciò si desume chiaramente dalle osservazioni dello storico settecentesco Elia D’Amato, il quale, nella Pantopologia, scrisse che il Nifo fiorì al tempo del pontificato di Leone X, mentre «obiit Pauli III Pontificatu» ovvero morì al tempo del pontificato di Paolo III, fra il 1534 e il 1549 (cfr. E. D’AMATO, Pantopologia cit., p. 213).
Nel periodo di massimo splendore, il Nifo conferì la laurea in Medicina a Domenico de Maffeis di Solofra «in virtù del diritto concessogli da Leone X» (CASSESE, op. cit., p. 12), mentre, oltre a commentare un gran numero di opere aristoteliche, diede alle stampe vari scritti astrologici, medici, politici e morali, filosofici. Non solo. Dal Tiraboschi sappiamo che il poeta rinascimentale Antonio Minturno «negli anni giovanili coltivò principalmente la filosofia alla scuola del celebre Agostino Nifo, di cui fu discepolo in Napoli, in Sessa e in Pisa». Nel 1531 il Nifo insegnava Filosofia e Medicina nello Studio di Napoli, dove probabilmente s’era trasferito «senza forse mai abbandonare la protezione del Principe che nella capitale aveva corte in uno splendido palazzo». A suffragare e confermare la sua attività di medico e ‘speziale’ al servizio di Ferrante, infine, sono alcune testimonianze riportate dal Tafuri, da cui si evince che lo studioso, su proposta del suo signore, produsse un medicinale chiamato Syrupum Domini Augustini o Sciroppo di Polipodio, menzionato, tra l’altro, dai medici Donzelli e Mercuriale per le sue particolari proprietà benefiche e curative. Il farmaco, valido antidepressivo, serviva «ad evacuare gli umori biliosi et aprire l’ostruzioni, giova all’indisposizione del cervello: la sua intenzione è di modificare e giovare efficacemente al mal franzese. […]. Nella pratica degli Speziali se n’ha ancora la maniera di prepararsi questo sciroppo sotto il titolo di Sciroppo al Polipodio Magistrale del Signor Agostino Suessano» (TAFURI, op. cit., p. 22).

(Continua)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *