SALERNO – Nelle precedenti 39 puntate di questa lunga storia ho cercato di esaminare i molteplici e variegati aspetti del potere, quello viscido e insinuante, quello che riesce sempre ad arrivare nei principali gangli della vita associativa. Uno degli aspetti principali , ma anche tra i i più deteriori, è senza dubbio quello della malavita organizzata che, nel nostro territorio regionale, si chiama “camorra”.
Ma che cosa è la camorra ?
Secondo una delle tante ipotesi storiche la società segreta che diede origine alla Bella Società Riformata si sarebbe formata a Cagliari nel XIII secolo sotto il nome di Gamurra (probabilmente derivante dal medesimo nome di una giacchetta marinara tipica dell’Italia tardo medievale e rinascimentale, o dalla lingua araba Kumar gioco d’azzardo proibito dal Corano) e poi si sarebbe diffusa a Napoli intorno al XIV secolo. Secondo l’ipotesi più accreditata ed anche accettata, il termine nascerebbe invece direttamente a Napoli, intorno al XVI-XVII secolo, trovando la sua radice etimologica originaria nello stesso dialetto napoletano, venendosi a formare dalla giunzione delle parole c’a-morra (con la morra), in riferimento all’omonimo gioco di strada. In virtù delle notizie storiche accertate, è assai condiviso datare ai primi anni dell’XIX secolo la nascita della camorra partenopea intesa come organizzazione criminale segreta, “una sorta di massoneria della plebe napoletana”. A differenza delle altre organizzazioni criminali, diffuse soprattutto in campagna, la camorra attecchisce velocemente in città, tra la popolazione locale, nei quartieri più popolosi, organizzandosi in famiglie (o clan), capitanate da criminali provenienti dai più bassi strati della società napoletana, che oltre a fungere da mercenari pagati dagli alti ceti sociali, per esercitare il controllo delle bische, si rendevano allo stesso tempo anche autori di soprusi, abusando del potere conferitogli. Queste bande infatti commettevano illeciti ai danni delle povere persone del popolo, come raccontato in un documento dell’epoca, al soldo di organizzazioni molto più potenti e più raffinate e, forse, direttamente collegate alla gestione della cosa pubblica. I progenitori della camorra storica, quella ottocentesca, esistevano nel XVII secolo ed erano detti compagnoni che si muovevano in quattro e vivevano alle spalle di prostitute, controllando il gioco d’azzardo e facendo rapine. In ogni quartiere napoletano c’era un gruppo di compagnoni di cui era membro anche qualche nobile. Il loro luogo d’incontro era la taverna “del Crispano”, presso l’attuale Stazione Centrale di Napoli. Per esempio, anche il canonico Giulio Genoino, ispiratore della rivolta di Masaniello, si faceva proteggere da compagnoni. Vi erano pure i cappiatori, ladri di strada, e i campeadores, rapinatori con coltelli. Alla fine del XVII secolo a Napoli ci furono 1338 impiccati, 17 capi giustiziati, 57 decapitati, 913 condannati alla galera. Nel periodo del vicereame spagnolo il criminale più noto fu Cesare Riccardi, detto “abate Cesare”, a capo di una banda di criminali.
Dunque fin dal suo nascere la “camorra” avvertì la necessità di avere un capo dominante ed alla sommità di una cupola di tantissimi altri capetti disseminati sul territorio, prima esclusivo della città di Napoli e poi su tutto il territorio ragionale, e non solo.
Non sto scrivendo un libro di storia sulla camorra, non ne sarei capace; ho soltanto analizzato in poche parole la nascita e la crescita di quel fenomeno che oggi è diffusissimo in tutta la Regione Campania con ramificazioni anche al di fuori dei confini regionali.
Uno dei capi tristemente noto è stato senza dubbio Raffaele Cutolo, detto “o’ professore” per le sue minime conoscenze letterarie che ne facevano davvero un professore di fronte alla totale incultura dei suoi adepti, la cui azione incominciò nel lontano 1963 trovando il massimo apogeo verso la fine degli anni ’70 (con l’omicidio di un ragazzo di Ottaviano, tale Mario Viscito) e agli inizi degli anni ’80 (con l’acquisto da Maria Capece Minutolo del castello di Ottaviano già appartenuto dal 1567 al ramo cadetto mediceo dei Medici di Ottajano). Il castello fu per pochissimi anni adibito a quartier generale della NCO (Nuova Camorra Organizzata), che Cutolo provvedeva a dirigere direttamente da uomo libero o dalle carceri di Poggioreale e di Ascoli Piceno. Il castello Mediceo (detto anche Palazzo del Principe), è stato nel 1991 confiscato dallo Stato e dato in proprietà al comune di Ottaviano. Raffaele Cutolo negli anni ’70 capì che soltanto unificando e sottomettendo i vari cartelli criminali sotto un’unica bandiera avrebbe potuto dominare la scena regionale sia sotto il profilo delinquenziale che quella della politica e del potere. Nacque così la N.C.O., la temibilissima organizzazione criminale (nata forse nel carcere di Poggioreale durante un periodo di carcerazione di Cutolo tra il ’71 e il ‘72) che per affermarsi diede vita alla famigerata “mattanza criminale” di ogni tempo (molto bene rappresentata dal compianto magistrato Domenico Santacroce nel suo libro “I miei giorni della camorra”) che verso la fine degli anni ’70 riuscì a conquistare il potere assoluto sia sulla criminalità che sulla politica. In pratica in pochissimi anni Cutolo riuscì a fare tutto ciò che diversi suoi predecessori, a cominciare dal famoso “Pascalone ‘e Nola” non erano stati capaci di fare. Il 15 maggio del 1979 Raffaele Cutolo viene catturato definitivamente in un casolare di Albanella in provincia di Salerno ed alla sua rocambolesca cattura segue un altro periodo di grandi omicidi di camorra fino a quando Carmine Alfieri e Pasquale Galasso conquistano il potere assoluto e fondano la N.F. (Nuova Famiglia) che spazza via tutti gli altri capetti e sottomette anche la politica di quegli anni già scossa dal rapimento e dalla liberazione del consigliere regionale della D.C., Ciro Cirillo. Gli anni e, soprattutto, i nuovi accordi raggiunti tra politica-giustizia-affari abbattono tutti i contrasti e Carmine Alfieri, con l’aiuto di Pasquale Galasso (studente universitario in medicina e giovane rampollo di una potente famiglia), conquista il controllo totale del territorio e dei rapporti, sempre inquietanti, tra politica – giustizia e affari. Il dominio di Alfieri e Galasso, nato sulle ceneri della NCO anche grazie al loro probabile tradimento dell’ex capo, durò all’incirca una decina di anni e probabilmente la parola fine fu scritta nel pomeriggio del 12 febbraio del 1992.
Quel pomeriggio è, forse, in svolgimento un summit itinerante sulle colline tra Giffoni e Pontecagnano a bordo di un fuori strada (progenitore degli attuali SUV) sul quale erano presumibilmente saliti lo stesso Alfieri e, forse, un politico. Era l’epoca del dominio politico in provinci9a di Salerno dei giovani parlamentari Carmelo Conte e Paolo Del Mese che operavano in una direzione completamente opposta a quella dei clan malavitosi. Bisognava, dunque, azzerare la loro azione e ridurli allo stato inoffensivo; mentre il summit si svolgeva la malavita organizzò in tutta la piana del Sele alcune azioni diversive in grado di attirare l’attenzione delle forze dell’ordine che, quindi, si allontanarono dai Monti Picentini. Purtroppo il caso volle che due carabinieri, Fortunato Arena e Claudio Pezzuto, fermassero per un controllo proprio quel fuoristrada nell’abitato di Faiano di Pontecagnano. Forse uno dei due carabinieri riconobbe i personaggi del summit e per questo furono immediatamente giustiziati dagli uomini di scorta Carmine De Feo e Carmine D’Alessio (due piccoli malavitosi locali che dopo qualche mese verranno catturati e condannati all’ergastolo). La presente ricostruzione di quanto potrebbe essere accaduto quel pomeriggio è assolutamente giornalistica e personale, sulla vicenda non sono mai emersi elementi giudiziari che potessero avallarne la veridicità, ma non sono neppure emersi elementi contrari. Sta di fatto, però, che le grandi famiglie in guerra (Alfieri – Galasso – Pepe – De Feo – D’Andrea – Romano e Maiale) furono letteralmente sgominate dalle forze dell’ordine nel giro di circa un anno da quella strage dei carabinieri e si concluse con l’arresto definitivo sia di Carmine Alfieri che di Pasquale Galasso.
Quanto ha inciso il potere della camorra nella vita politica nostrana ?
Non è assolutamente facile rispondere, anche perchè la ricostruzione sistematica di tutte le connessioni e di tutti i passaggi sarebbe molto complicata e rischierebbe di essere addirittura poco credibile. Un fatto, però, è certo e riguarda la caduta dei due parlamentari di cui sopra, Conte e Del Mese, che furono letteralmente schiacciati dalla gogna mediatica e giudiziaria in poco più di un anno dalla strage di Faiano. Difatti i due capi bastone dell’epoca, Alfieri e Galasso, riuscirono a portare dalla loro parte un personaggio molto ambiguo e controverso, Pinuccio Cillari, che era stato uno dei principali collaboratori di Raffaele Cutolo e che stava mediando con Enzo XCasillo per favorire quest’ultimo nella conquista del potere assoluto. Alfieri e Galasso riuscirono a conquistare la fiducia di Cillari e subito dopo l’autovettura che lo stesso Cillari aveva acquistato per Casillo esplose in una strada di Roma provocando la morte dello stesso Casillo e la caduta definitiva di quello che era stato l’impero di Cutolo. Il potere di Pinuccio Cillari, anche al di là dei suoi stretti e miseri meriti, crebbe in maniera esponenziale e venne utilizzato dai magistrati salernitani nella battaglia di tangentopoli iniziata contro i due personaggi politici più potenti dell’epoca: Paolo Del Mese e Carmelo Conte. Lo scontro è durissimo ed alla fine pagano tutti: magistrati, politici, imprenditori e camorristi; in pratica la cosiddetta famigerata “cupola” viene letteralmente smantellata per fare spazio ad altri personaggi, ad altri poteri forse più forti di quelli di prima. Le inchieste giudiziarie aprono scenari inquietanti, le sentenze li chiudono anche se quando arrivano è ormai troppo tardi per restituire l’onorabilità perduta.
La risposta alla domanda “Quanto ha inciso il potere della camorra nella vita politica nostrana” viene da se; in pratica ha inciso moltissimo provocando sempre guasti insanabili. E quando la giustizia ha avuto la possibilità di rimettere al loro posto i tantissimi tasselli del puzzle per capire la nascita e la crescita dei vari poteri, buoni e cattivi, che si sono susseguiti sul nostro territorio non l’ha fatto. Il caso più eclatante è quello inerente la vita e la morte di Cosimo D’Andrea sul cui personaggio tempo fa testualmente scrivevo: “”Quando si parla o si scrive, soprattutto quando si scrive, di Cosimo D’Andrea è sempre molto difficile trovare il titolo adatto. Si finisce fatalmente sempre per sbagliare, tanta è la complessità ed anche lo spessore culturale e imprenditoriale del personaggio. In esso si assommano molti profili di diversa natura e chiaramente di diversa lettura, a seconda da quale angolazione lo si vede o lo si vuole vedere. A volte anche per lo stesso profilo è stato visto e letto in maniera assolutamente diversa, contrastante e inquietante. Ma avremo modo di parlarne nelle successive puntate di questa storia che mi accingo a raccontare soltanto al fine di portare un piccolo e modesto contributo di chiarezza. Nella mia lettura non ci sono altri scopi. L’ultima volta che ho scritto qualcosa su Cosimo D’Andrea (il giorno 10 febbraio scorso) l’ho fatto per commentare un articolo apparso su “Il Mattino” del 13 gennaio 2012 dal titolo “Morì in carcere, risarcito D’Andrea”. L’articolo raccontava che “il decesso del detenuto diventa un caso di studio per giuristi e giudici” ad opera dell’Associazione DEA, rappresentata dagli avvocati Forlani e Girardi nell’ambito del convegno “Morire in carcere” svoltosi a Salerno il 27 gennaio 2012 nel salone dei marmi del Comune. Insomma il caso D’Andrea, dopo anni di oblio, è ritornato sulle prime pagine della cronaca ad opera degli avvocati Dario Incutti e Francesca Forlani che hanno promosso e vinto in Cassazione il ricorso ispirato dal fratello di Cosimo, Damiano D’Andrea, contro il medico del Cardarelli (Michele Galante) con l’accusa di “omicidio colposo” in danno del congiunto per via di alcuni giudizi contrastanti sullo stato di salute del paziente e sulle sue reali possibilità di sopportazione e di compatibilità con il regime carcerario. La pronuncia della Cassazione potrebbe indurre la Procura della Repubblica di Salerno a riaprire il “caso D’Andrea” e su tutto quello che il D’Andrea ha rivelato o avrebbe rivelato agli inquirenti. Il mio scritto del 10 febbraio scorso ha suscitato molte più reazioni rispetto a quello de Il Mattino che pure aveva enunciato concetti molto più gravi e più pesanti nei confronti del profilo giudiziario del D’Andrea. Reazioni che sono, probabilmente, frutto di una considerazione nei miei riguardi leggermente più elevata rispetto a quella dei colleghi del quotidiani napoletano, perché probabilmente sono stato considerato meno appiattito su posizioni preconcette o su posizioni ispirate, non dai fatti reali, ma dall’ondivago atteggiamento degli inquirenti nei confronti di un personaggio che, in verità, si è anche esposto a questo tipo di analisi così diversificata. Ebbene, devo riconoscere, con onestà intellettuale, che anche io ho corso il rischio di appiattirmi su alcuni aspetti del profili di D’Andrea che hanno fatto comodo a tanti inquirenti salernitani. Voglio chiarire che non spetta a me dare una lettura vera e definitiva dei vari profili del personaggio D’Andrea che, in apertura, ho definito molto complesso. Il mio vuole essere soltanto un piccolo contributo di chiarezza in una dilagante e troppo generalista definizione di Cosimo D‘Andrea come “pezzo da novanta della malavita organizzata salernitana, capo dell’omonimo clan e imprenditore del malaffare, protagonista dell’associazionismo camorristico già a partire dagli anni ‘80” (fonte Il Mattino). Una definizione che molto verosimilmente ha fatto comodo a tutti: gente comune, camorristi, imprenditori, politici, magistrati e giornalisti. Prima di chiudere questa prima puntata è necessaria una riflessione sul titolo “All’ombra delle legge”. Dall’esame di tutto il materiale raccolto e dalla conoscenza diretta, anche se parziale e risalente a molti anni fa, ho sempre pensato che Cosimo D’Andrea fosse un personaggio vissuto all’ombra della legge, quasi costretto in alcuni momenti, dalla quale è stato a fasi alterne assolto e condannato, sfruttato e trascurato, creduto e inascoltato. Fino al punto che Lui, comunque uomo tutto d’un pezzo, si fosse lasciato sprofondare nell’oblio di se stesso e del ricordo degli uomini””.
Nel corso del viaggio di rivisitazione del personaggio “Cosimo D’Andrea” mi sono imbattuto in un libro, quasi dimenticato, scritto da Domenico Santacroce (già giudice istruttore presso il tribunale di Salerno e già capo della procura della repubblica di Sala Consilina, poi avvocato penalista nel Foro di Salerno) scritto nel lontano novembre 1988 ed edito da “Boccia Editore”. Il libro, che piaccia o no, è una ricostruzione storica di fatti sui quali il giudice Santacroce ha direttamente indagato a volte per partito preso e più spesso per convinzione personale a difesa di quella legalità che vorrebbe “il giudice soggetto soltanto alla legge”. Un principio che spesso, però, resta scritto soltanto come una delle più belle enunciazioni della Carta Costituzionale. Non intendo inoltrarmi oltre in questo discorso perché mi porterebbe molto lontano. Mi fermo al titolo del libro “I miei giorni della camorra” che il giudice Santacroce ha voluto così fortemente marcare e che rimane, dicevo prima, un validissimo vademecum soprattutto per i giovani giornalisti che si avvicinano alla difficile cronaca giudiziaria. Nel libro c’è un capitolo (poco più di due paginette) interamente dedicato a Cosimo D’Andrea con un titolo ad effetto “La banda di don Cosimo”. Il capitolo sui apre con la descrizione del momento drammatico che si vive nelle carceri italiane mentre era in corso il movimento di dissociazione in blocco di numerosi cutoliani salernitani e mentre all’esterno i superstiti della grande retata del novembre 1983 cercavano una nuova sistemazione ed un nuovo equilibrio: ““A questo riguardo l’attenzione va posta su di un personaggio della zona di Battipaglia. Si tratta di Cosimo D’Andrea, nato il 16.6.46 a Battipaglia, il quale, ancora giovane, era già conosciuto con l’appellativo di rispetto <don Cosimo>. E’ un personaggio poliedrico, con una certa cultura estremamente intelligente, versato in svariate attività criminose, che vanno dalla truffa alla bancarotta, dalla ricettazione alla estorsione. Costui, già latitante per altro affare delittuoso, riuscì a conservare tale suo stato, nonostante la emissione di altro ordine di cattura del 23.11.1983 … con l’accusa di far parte della organizzazione cutoliana con il grado di capo di una delle zone del salernitano … In tale ruolo di preminenza egli era stato chiamato a risolvere conflitti, intervenendo a favore e nell’interesse di altri associati, ed a procurare protezione e nascondiglio a latitanti provenienti da fuori provincia. Proseguendo però negli accertamenti si scoprì che D’Andrea … dopo l’uccisione di Vincenzo Casillo aveva posto su una banda personale cercando … un proprio spazio nel territorio … Dotò questa banda di una notevole agilità che gli consentiva rapidi spostamenti su tutto il territorio nazionale … Gli usurai tra i quali Giovanni Marandino ed altri della zona ricevevano notevole disturbo quando dietro ai debitori operava D’Andrea in quanto spesso correvano il rischio di perdere le proprie garanzie … questo rappresentò per D’Andrea la ragione del suo immediato successo ed anche l’inizio dei suoi fastidi … I fastidi, però, gli vennero proprio dal mondo della usura, perché fu tale Luigi Caldarola, passato poi anch’egli per la punta della canna di una lupara, spalleggiatore di un noto usuraio della zona di Eboli Santa cecilia, a prestarsi di accordo con i Carabinieri a fare da spia, infiltrandosi nei covi di D’Andrea per consentirne la cattura …“”.
Ebbene proprio da D’Andrea è arrivato, forse, l’ultimo messaggio positivo per la giustizia in senso lato; dal carcere milanese di Opera lanciò chiari messaggi di pentimento rendendosi disponibile per un lunghissimo interrogatorio che avvenne il 19 luglio 2001 dalle ore 11.35 in poi; raccogliere alcune sue rivelazioni fu il magistrato della DDA di Salerno Antonio Centore (ora a capo della Procura di Nocera Inferiore); le rivelazione riguardavano decisamente la nascita e la crescita del “nuovo sistema potere politico salernitano”, quello che dal 1993 aveva preso il posto del precedente ascrivibile a Conte e Del Mese. Ecco qui di seguito cosa ho scritto il 19 dicembre 2012 su quell’interrogatorio nel carcere milanese: “”… ebbene in ordine di tempo l’ultimo magistrato a sentirlo è stato Antonio Centore (DDA di Salerno) che lo interrogò presso il carcere di Opera a Milano alle 11.35 del 19 luglio 2001, poco più di un mese dopo il suo arresto ed esattamente cinque mesi prima che D’Andrea morisse. In quei 153 giorni, tra l’interrogatorio e la morte, è accaduto di tutto e di più Un interrogatorio di oltre cento pagine dattiloscritte per dire tutto e niente. Il pm Centore colse l’occasione per porgli anche alcune domande sul Sea Park (oggi il processo è ancora in corso a Salerno !!) e su tante altre vicende incastonate su uno sfondo quasi surreale di grandi operazioni economiche tra legalità e illegalità. Cosa è accaduto in quei 153 giorni, perché a quell’ultimo interrogatorio in cui si parla anche del Comune di Salerno non è mai stato dato il giusto peso in sede giudiziaria, e perché la magistratura invece di proteggere il collaboratore si è sostanzialmente accanito contro di lui ? Le risposte sono difficilissime; una sola cosa è certa. Quando D’Andrea parla del Comune di Salerno quale principale “sponsor” del progetto Sea Park il pm Centore dice: “Va bene d’accordo, approfondiremo separatamente. Poi?”, gli fa eco il collaboratore di giustizia (che per la legge forse è solo un camorrista !!) dicendo “”Ci volessimo fermare quasi?””. L’interrogatorio, dopo 118 pagine, finisce con la promessa di continuare in altra data per approfondire specifici argomenti; il verbale viene chiuso ed allo stesso viene allegata la bobina della fonoregistrazione. Dopo di che il nulla, fino alla morte di Cosimo D’Andrea …Oggi è soltanto il tempo del silenzio, del religioso silenzio per commemorare la memoria di un uomo che pensando di fare del bene si trovò coinvolto in una marea di vicende giudiziarie molto più grandi di lui …””.